Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti, la recensione: cosa succede a essere socievoli

Nel momento in cui la Blumhouse rifà Speak No Evil danese lo radica molto di più in una casa e lo rende una storia di sessualità

Critico e giornalista cinematografico


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Questa volta la casa in cui avere paura di un film Blumhouse è di altri. Stavolta è una casa in cui la famiglia protagonista è ospite, invitata da una coppia (con figlio della stessa età della loro) conosciuta in vacanza. Una residenza di campagna lontano da tutto (non propriamente rassicurante) in cui con un crescente senso di disagio sono ospiti di persone con le quali sentirsi sempre meno a proprio agio. La parte interessante di Speak No Evil è che non si fonda sul timore per la propria vita (almeno per la gran parte della sua durata) o sul timore del sovrannaturale o altro, ma sul disagio e il senso di minaccia percepito dallo stare ospiti di qualcuno che, i protagonisti lo realizzano solo lì, non si conosce veramente.

Tutto viene da un altro Speak No Evil, l’originale danese di Christian Tafdrup del 2022, sul quale James Watkins (non proprio il più delicato e raffinato dei cineasti) ha creato questo remake Blumhouse che enfatizza la casa come spazio chiuso, identitario e inviolabile. Il terreno di caccia di un altro maschio. Non tutto funziona bene nella prima parte, il film è un po’ sfilacciato nel mettere in mostra i temi e le questioni che serviranno più avanti, è meno compatto dell’originale e più grossolano nel mettere in evidenza, per esempio, le molte maniere in cui Scott McNairy (il padre della famiglia ospite) viene evirato da James McAvoy, metaforicamente e allegoricamente. Questa è molto una storia di un maschio che non si sente maschio (ha anche perso il lavoro), a contatto con uno che continuamente appare esserlo più di lui.

“Libera il cowboy che è in te” è il titolo di un libro che gli viene consigliato e fa sorridere perché sembra assecondare l’ossessione per i cowboy come punto di riferimento degli uomini che si è vista in Barbie. Insomma, se l’originale era un film che aveva molto da dire su un certo modo danese di vivere la cortesia e il rapporto con gli altri (e le fobie connesse), questo è un film sui sessi, che parte da un matrimonio in crisi e su quella crisi costruisce la propria tensione. La trama e l’intreccio rimangono quelli: una volta nella casa di campagna, ci saranno scoperte terribili che porteranno a decisioni irrevocabili, e proprio questi elementi sono quelli che danno forza al film, quelli che non vengono toccati ma replicati quasi uguali. Lo stesso non si può dire invece del finale.

Senza stare a spoilerare, Watkins (e Blumhouse) optano per una chiusa in linea con i temi che interessano a loro, meno disperata e in un certo senso più convenzionale (ma anche più d’azione). È un peccato perché una gran parte di Speak No Evil originale era costituita da quel senso di assurdo e ingiusto con cui lasciava lo spettatore, il senso di identificazione in una coppia vittima di una socialità sventata, cosa che qui non c’è ed è sostituita quasi dal suo opposto. È evidente che nella storia, in sè proprio, esiste una componente di svilimento del maschio, il senso di crisi di fronte a un pericolo a cui non sa fare fronte e il confronto sbilanciato con un altro maschio, ma questo Speak No Evil sembra urlarlo invece di suggerirlo.

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