Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti, la recensione: cosa succede a essere socievoli
Nel momento in cui la Blumhouse rifà Speak No Evil danese lo radica molto di più in una casa e lo rende una storia di sessualità
Questa volta la casa in cui avere paura di un film Blumhouse è di altri. Stavolta è una casa in cui la famiglia protagonista è ospite, invitata da una coppia (con figlio della stessa età della loro) conosciuta in vacanza. Una residenza di campagna lontano da tutto (non propriamente rassicurante) in cui con un crescente senso di disagio sono ospiti di persone con le quali sentirsi sempre meno a proprio agio. La parte interessante di Speak No Evil è che non si fonda sul timore per la propria vita (almeno per la gran parte della sua durata) o sul timore del sovrannaturale o altro, ma sul disagio e il senso di minaccia percepito dallo stare ospiti di qualcuno che, i protagonisti lo realizzano solo lì, non si conosce veramente.
“Libera il cowboy che è in te” è il titolo di un libro che gli viene consigliato e fa sorridere perché sembra assecondare l’ossessione per i cowboy come punto di riferimento degli uomini che si è vista in Barbie. Insomma, se l’originale era un film che aveva molto da dire su un certo modo danese di vivere la cortesia e il rapporto con gli altri (e le fobie connesse), questo è un film sui sessi, che parte da un matrimonio in crisi e su quella crisi costruisce la propria tensione. La trama e l’intreccio rimangono quelli: una volta nella casa di campagna, ci saranno scoperte terribili che porteranno a decisioni irrevocabili, e proprio questi elementi sono quelli che danno forza al film, quelli che non vengono toccati ma replicati quasi uguali. Lo stesso non si può dire invece del finale.