Spaceman, la recensione

Il nuovo film di Adam Sandler è un dramma fantascientifico che manca tutti i bersagli, senza un centro tematico e mortalmente noioso.

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La recensione di Spaceman, il nuovo film diretto da Johan Renck, in streaming su Netflix dall’1 marzo.

Un cosmonauta ceco in missione nello spazio (Adam Sandler) racconta i suoi problemi di cuore a un mostruoso alieno di forma aracnoide (Paul Dano). Chissà se l’agente di Adam Sandler ha letto questa sinossi e ha pensato che fosse una commedia. Invece Spaceman va ad arricchire il catalogo del Sandler per adulti, quello di Diamanti grezzi e Hustle. Ma era meglio il contrario. Almeno ci sarebbe stata dell’autoironia. Una delle grandi colpe di uno dei film di fantascienza più sbagliati degli ultimi anni è quella di prendersi mortalmente sul serio, non capendo mai la ridicolaggine intrinseca di ciò che racconta. Una visione noiosa diventa così un’esperienza frustrante, del tipo che fa venire voglia di alzarsi e mettersi a urlare contro lo schermo.

I “peccati” di Spaceman sono soprattutto tre. Primo: non si capisce mai di cosa parli davvero. In un’ora e cinquanta scarsa si toccano solitudine esistenziale, esplorazione scientifica, femminismo separatista, relazioni tossiche, uomini che “piuttosto che andare in terapia diventano astronauti”, fobie ancestrali, dissoluzione dell’Est Europa comunista, complesso di Edipo, l’origine dell’universo e potremmo continuare. Temi che evidentemente provengono dal romanzo di partenza Spaceman of Bohemia(2017) di Jaroslav Kalfař. Ma che la sceneggiatura di Colby Day non è minimamente in grado di digerire in una forma coerente, limitandosi a lanciarli addosso allo spettatore in modo superficiale e pretestuoso.

Secondo, Spaceman è un film di fantascienza che non ha nessuna capacità o intenzione di sviluppare un discorso coerente a partire dal genere a cui appartiene. Potrebbe essere un dramma di coppia ambientato sulla Terra, con un terapista al posto del ragno alieno, e non cambierebbe assolutamente niente. È la sintesi di tutto quello che non va nella fantascienza contemporanea, soprattutto quella delle piattaforme, che sembra servirsi del genere non come strumento narrativo e di esplorazione della realtà, ma puramente come flavour, una patina di tecnologia e atmosfere soffuse con cui ricoprire di malinconia hipster drammini pseudo-intellettuali scritti da un liceale che ha visto troppe volte Solaris.

E torniamo al problema di tono. Qual è la cosa peggiore che può fare un film molto al di sotto delle sue ambizioni, che approccia la fantascienza in modo del tutto strumentale, per finire di scavarsi la fossa? Non avere un briciolo di ironia. Il problema non si limita all’incapacità di vedere il potenziale comico di “Adam Sandler parla di filosofia con un ragno” (un ragno maledettamente simile a Paul Dano) – una cosa che fa ridere a prescindere dalle tue intenzioni, tanto vale che la sfrutti anzichè cercare di combatterla. Il punto è che la seriosità di tutto è a livello 11, dal commento musicale melanconico alle inquadrature deformanti che fanno tanto Sundance, alle performance di Sandler e Carey Mulligan. È tutto talmente kitsch che bastava uno spiraglio di autoconsapevolezza grottesca – alla BoJack Horseman – per fare il giro e ridersi un po’ addosso, e nessuno si sarebbe fatto male. Invece..

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