Southpaw - L'Ultima Sfida, la recensione
Perfetto sulla carta per cast e autori ma terribile su schermo per velleità, realizzazione e troppa indecisione, Southpaw è una delusione cocente
Il nuovo film di Antoine Fuqua doveva mettere Jake Gyllenhaal sotto il riflettore in un ruolo duro ed epico, quello di un pugile scemo dal cuore morbido e dalla pelle dura, messo alla prova dalla vita ma pronto a rifarsi. Doveva essere in buona sostanza una storia di sport che, a giudicare dalla sinossi della storia, non si muove troppo lontano dalle familiari acque di Rocky. Caduta e ritorno in sella di un pugile che prende tanti colpi dalla vita quanti sul ring ma che ai primi (almeno inizialmente) sa rispondere meno bene che ai secondi. E i presupposti c'erano tutti, dallo sceneggiatore (per l'appunto) pratico nel racconto di vita dura, al regista che dei bassifondi e della cultura dell'ascesa conosce bene i meccanismi (Training Day, Brooklyn's Finest), uno, soprattutto, in cerca di una legittimazione culturale dopo diversi film fatti per gli studios (Olympus has fallen e The equalizer).
Dopo la rottura di quest'equilibrio professionale e sentimentale però accade qualcosa di realmente irreparabile, Southpaw diventa un pastrocchio scritto malissimo, in cui niente è veramente chiaro e bisogna fidarsi di affermazioni che arrivano troppo repentine ("Hai finito i tuoi soldi Billy, devi vendere tutto" ma non era miliardario?? - "Non ti sei mai saputo difendere, devi imparare a parare i colpi" ma non aveva difeso 13 volte imbattuto il titolo del mondo???) e soprattutto Southpaw vira, non vuole più essere un film di sport, quelli in cui la tenacia del protagonista e il suo mondo sentimentale sono intenti a costruire una vittoria che legittimi una vita intera, ma diventa un film di piccolezze. Quello che perde è il principio base del cinema sportivo per il quale l'uomo è in costante lotta per far prevalere la testa sul corpo, la spirito sui limiti della carne, attraverso una volontà commovente.
Antoine Fuqua sembra di colpo spiazzato al pari dello spettatore. Si perde in un bicchier d'acqua al momento di far interagire il pugile suonato di Gyllenhaal con la figlia, arranca anche nei più banali e inutili dei training montage e sembra appellarsi agli attori come può (Forest Whitaker, ineffabile allenatore da bassifondi, gli dà una mano ma nemmeno lui riesce a fare molto con un personaggio incoerente e privo di carisma). Ad un certo punto anche l'idea di una fotografia sporca e satura sembra non avere più molto senso.
Volontariamente ambientato fuori dalle regole del genere cui avrebbe potuto appartenere, determinato a fare promesse iniziali che non manterrà e incapace di essere così audace da far categoria a sè, da fondare una mitologia e un racconto diversi e originali che però reggano e abbiano senso, Southpaw alla fine non è davvero niente. Non è cinema di sport, non è un buon film sentimentale, nè un film di critica sociale, non è una storia di rivalsa, nè una di amicizia virile. Ancor peggio non riesce a parlare di sentimenti nè alla maniera del cinema virile (niente parole, solo azioni) nè alla maniera del cinema più classico e romanzesco (poche azioni, molta recitazione). Un disastro che crolla di minuto in minuto per almeno 100 dei suoi 124 minuti.