Sound of metal non è un film sulla musica. E non cerca in nessun modo di esserlo. Attraverso un lavoro epidermico e sensoriale sulla colonna sonora, sorretto da una sceneggiatura sempre solidamente agganciata al problema del personaggio,
Sound of metal di
Darius Marderè un
film potente, a tratti angosciante, che ragiona di fatti sulle diverse sfaccettature dell’incomunicabilità.
Una premessa più drammatica non poteva esserci. Ruben (Riz Ahmed) è il batterista di un duo metal che ha con la sua ragazza Lou (Olivia Cooke) cantante e chitarrista. Durante uno show, improvvisamente, Ruben perde l’udito, e da quell’attimo per lui cambia ogni cosa. Spinto dal manager trascorre del tempo in una comunità per sordi, lontano da Lou, dove è costretto a ripensare come vivere secondo una percezione totalmente inedita, affrontando conflitti dai più pratici ai più emotivamente profondi.
Il
film ci mette subito di fronte a una situazione fortemente drammatica (è davvero la cosa peggiore che potrebbe capitare a un musicista), dalla cui esplosione
Sound of metal vive praticamente di rendita per tutto il resto del film. E funziona. Subito, di contrappunto, ci mostra come Ruben tenga tutto il suo dolore (e all’inizio anche tanta incredulità di fronte a quello che gli è accaduto) per sé, non mostrando apparenti segni di cedimento o di rassegnazione. Ma i suoi occhi parlano molto di più: Riz Ahmed è qui un interprete veramente incredibile, che con un lavoro fortissimo sull’espressività è riuscito a dare vita a un personaggio freddissimo quanto sfaccettato. Nonostante i primi minuti portino automaticamente la mente a
Whiplash, il regista Darius Marder compie rispetto a Damien Chazelle uno scarto e rende l’aspetto specificamente sonoro - e non musicale - il nodo del suo film. Non si tratta di battersi per il successo per realizzare il proprio sogno a tutti costi: la musica è un pretesto.
Sound of metal è invece un film fatto di piccoli momenti, neanche troppo dinamici, che ha l’idea geniale di usare la sua colonna sonora come resa della coscienza del protagonista. Come spettatori sentiamo quasi sempre quello che sente Ruben: il più delle volte niente, al più dei suoni ovattati, distorti. L’effetto è fortissimo, tanto semplice quanto efficace. Solo nei momenti in cui ci sono più personaggi in scena tiriamo un sospiro di sollievo, potendo finalmente sentire quello che sentono i suoi interlocutori.
L’incomunicabilità diventa allora il vero focus: attraverso i vari livelli della storia - la relazione di Ruben con Lou, la storia personale di lei, i problemi di Ruben all’interno della comunità per sordi - viene esposta a più livelli, portando avanti l’idea per cui si è veramente soli, isolati dal mondo, soltanto quando si è ostili al cambiamento ( e questo a prescindere dal modo in cui comunichiamo, che sia a voce, con lo sguardo o con la lingua dei segni).
Sound of metal è un grande film perché con una storia apparentemente tranquilla, priva di grandi avvenimenti (a parte l’incidente iniziale) ci comunica in modo potente ogni pensiero, ogni dolore dei suoi personaggi, senza mai - proprio mai - farli parlare di come si sentono davvero. Darius Marder è riuscito a far parlare le scene, i corpi e gli sguardi degli attori con un’eleganza da maestro e che a tratti ricorda la dolora poesia di
The Wrestler di Darren Aronofsky. Peccato soltanto che, diversamente dal personaggio di Mickey Rourke, del passato di Ruben ci venga detto poco e niente: forse un ulteriore passo indietro avrebbe reso il suo conflitto ancora più forte. E
Sound of metal un film perfetto.
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