Sound of Freedom - il canto della libertà, la recensione

Il film-scandalo della scorsa estate americana, accostato ai cospirazionisti di QAnon, è un concentrato di propaganda reazionaria.

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La recensione di Sound of Freedom, il nuovo film diretto da Alejandro Monteverde, al cinema dal 19 febbraio.

Al suo arrivo in Italia Sound of Freedom è già uno dei film più chiacchierati degli ultimi mesi. Incasso pazzesco (250 milioni di cui 184 nei soli Usa), coda di polemiche e l’accusa mossa da più parti di essere una specie di manifesto dei QAnonisti, organizzazione di estrema destra di cui fa parte il protagonista Jim Caviezel. Di tutto questo avevamo scritto all’epoca dell’uscita americana; ora che il film è in sala la domanda è: che cosa aspettarsi? La risposta è un thriller piuttosto convenzionale, di fattura non disprezzabile ma insufficiente a reggere le due ore e dieci di durata, che si distingue principalmente per il fervore fanatico con cui racconta una storia di lotta al traffico sessuale di bambini in Colombia.

Anche a non sapere chi c’è dietro la sua realizzazione o i dubbi che circondano il protagonista Tim Ballard, c’è poco da fare: Sound of Freedom è un film pensato a tavolino per parlare alla pancia di uno spettatore-tipo reazionario e religiosamente radicalizzato. Quella che sulla carta sarebbe una storia di eroismo in difesa dei deboli, viene comunicata dal film in modi che nutrono una visione del mondo priva di sfumature, paranoica verso le istituzioni statali (“la burocrazia è una merda, per questo opero in nero”) legata alla difesa di valori estetici e culturali che stanno da qualche parte fra gli slogan di Capitol Hill e un sermone di suprematisti bianchi della Bible Belt - zona degli Usa a maggior percentuale cristiana, coincidente con gli stati del Sud e parte del Midwest.

In gran parte questo è dovuto alla presenza ispiratrice di Jim Caviezel, nella cui filmografia c’è ormai da anni un’evidente linea spirituale e cristologica. Nelle mani del protagonista di La sottile linea rossa e La passione di Cristo, la figura di Timothee (“temo Dio”) Ballard viene riscritta come quella di un guerriero della Fede, quasi un avatar dello stesso Gesù, sorretta da un immaginario che mescola citazioni visive all’Ultima Cena di Leonardo, slogan tipo “I figli di Dio non sono in vendita”, e una specie di kalokagathìa razziale che contrappone ai cattivi sempre brutti e mingherlini la bellezza ariana dell’eroe americano e della sua famiglia.

Sempre a questo proposito, è ironico che un film schierato contro la pedofilia (come se ci fosse qualcuno che invece è a favore) possa poi fare un uso così ricattatorio, al limite del pornografico, dell’immagine dei bambini che interpretano le giovani vittime. Tutti rigorosamente bellissimi e angelici, scelti per schiacciare a tavoletta il pedale della cuteness e titillare gli istinti protettivi del pubblico, diventano l’arma retorica di un discorso che da difesa degli ultimi sfuma progressivamente nel familismo più becero e facile. Non serve tirare in ballo QAnon per vedere in Sound of Freedom un’inquietante operazione di propaganda culturale, il cui clamoroso successo accende un campanello d’allarme sulla radicalizzazione ideologica che interessa oggi una parte d’America.

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