Sorry for Your Loss: la recensione

Le nostre impressioni su Sorry for Your Loss, con Elizabeth Olsen

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L'elaborazione del lutto è sorella del senso di colpa. Per le frasi pronunciate in un momento di rabbia, per tutto ciò che poteva essere e ora non è più, per i propositi lasciati a raffreddare sulla finestra del timore. Anche solo per il semplice fatto di esserci ancora. The Leftovers, ad esempio, imperniava un'intera serie sulla "colpa dei sopravvissuti". Da simili considerazioni, ma che scivolano nel particolare, muove Sorry for Your Loss, primo progetto importante di Facebook Watch. Il social si aggiunge agli innumerevoli produttori di contenuti seriali, e lo fa con un prodotto intimo, liberatorio, sincero, sulla morte e le forme della solitudine. Con una Elizabeth Olsen raramente così intensa.

Leigh Shaw è una giovane vedova. Suo marito Matt (Mamoudou Athie) è scomparso da alcuni mesi, e lei fatica a riprendere in mano la propria vita. Frequenta dei gruppi d'ascolto per l'elaborazione del lutto, è aiutata dalla sorella Jules (Kelly Marie Tran) e dalla madre Amy (Janet McTeer), continua a essere legata al cognato Danny (Jovan Adepo). Il presente chiama, attraverso un lavoro che non può essere abbandonato, la vita sociale che si dipana tra matrimoni di altri e piccoli problemi personali, ma è solo l'eco sorda di un mondo lontano, che filtra a malapena attraverso la campana di dolore di Leigh.

La serie creata da Kit Steinkellner di snoda attraverso dieci episodi brevi, affilati, che bastano a se stessi e che traggono il meglio da una formula così peculiare per un drama. Eppure così adatta ad un racconto asciugato da retorica e sentimentalismi. Il dramma di Leigh viene veicolato tramite la sua normalità, vince attraverso un'elaborazione nel quotidiano che non è mai sconvolgente o melodrammatica, ma che proprio per questo sa colpire meglio. Lo fa attraverso immagini semplici, come il PIN di uno smartphone, una maglietta ritrovata, un oggetto che scatena un ricordo o un cambiamento improvviso che, al contrario, comunica che il mondo sta andando avanti, nonostante tutto.

Lo stesso titolo è una dichiarazione d'intenti dello show. La formula di circostanza, non detta per cattiveria, ma per l'incapacità oggettiva di fare breccia nel dolore altrui e nell'altrui solitudine. Il conforto della normalità, quando si realizza che ogni lutto è straordinario, ma solo per la persona che davvero lo prova. Di queste solitudini, molto diverse tra di loro, la serie si fa carico. C'è quella di Leigh, filtrata attraverso gli occhi stanchi e lucidi di Elizabeth Olsen, che sono la prima e l'ultima cosa che vedremo nella serie. C'è la solitudine della sorella Jules, che è stata in riabilitazione. Quella di Danny, che ha perso un fratello "non rimpiazzabile". E quella dello stesso Matt, in un episodio che ci racconta molto sul suo personaggio.

"Ti dicono che non è la fine del mondo, solo perché non è la fine del LORO mondo".

Per chi cerca riferimenti più alti, è la Beatriz di Borges ("compresi che l'incessante e vasto universo cominciava già ad allontanarsi da lei e che quel mutamento era il primo di una serie infinita"), ma è anche qualcosa di estremamente tangibile. In questo prodotto catartico, che nasce più come analisi del tema che come veicolo di lancio per un intero nuovo distributore di contenuti, l'intreccio è ridotto al minimo, quel tanto che basta a dare le coordinate del piccolo, fragile mondo di Leigh. L'approccio è quasi episodico, piccoli quadri di vita alla luce di quello che è successo, e che ha un valore più nelle sue conseguenze che nelle sue cause, come dimostra la scelta di mantenere oscuri alcuni punti chiave. E non si tratta nemmeno di attendere la rivelazione improvvisa, o la scoperta che cambia la prospettiva sulla vita, perché difficilmente ciò sarebbe condivisibile dalla maggioranza.

Si tratta di fare un passo alla volta, di adattarsi al presente, di non rinunciare al futuro. E scoprire, un giorno, di essere in grado di sorridere e piangere insieme.

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