Sono innocente, di Fritz Lang | Venezia Classici 2020 @ Cinema Ritrovato

In Sono innocente non ci può essere redenzione di alcun tipo: un criminale rimarrà sempre un criminale per chi lo guarda

Condividi

Dopo l’esordio nel sistema hollywoodiano con Furia (1936), dramma a tinte nerissime sul linciaggio di un uomo innocente da parte di una folla assetata di giustizia riparatrice, pare quasi impossibile che l’austriaco Fritz Lang riuscì a girare un film altrettanto duro e spietato come Sono innocente (1937), affresco impietoso della società americana e del suo sistema giudiziario: l'una ancorata a un certo moralismo, mostrato qui in tutte le sue contraddizioni, l'altra rappresentata come una istituzione lontana dall'individuo. È il paradosso degli Stati Uniti, patria dei diritti personali, dell'individualismo: il paradosso del singolo che soccombe a favore della massa.

Considerato uno dei primi noir statunitensi, Sono innocente è la parabola discendente di Eddie Taylor – un Henry Fonda portato al limite della nevrosi - ex galeotto che dopo aver scontato la pena è libero di tornare in società. Deciso a ricostruirsi una vita insieme alla fidanzata Joan (Sylvia Sydney), Eddie esprime la volontà di agire nei limiti della legge, comunitaria e anche divina: e proprio padre Dolan infatti, oltre alla fidanzata è l’unico che ha fiducia in lui, nel suo futuro operato. Ma Eddie Taylor è un uomo segnato, e non per una certa morale manichea che dice che chi nasce cattivo muore cattivo: a differenza infatti dei vari gangster che avevano affollato le sale cinematografiche negli a inizio decade (da Hawks a Wellmann passando per LeRoy), Eddie Taylor è invece presentato come un good man che, nonostante i suoi errori passati e la sua volontà di redimersi, è costretto invece dalla società a ritornare verso il crimine. È una questione di sfumature, ma cambia completamente il messaggio e l’audacia di Fritz Lang nell’averlo potuto trasmettere (il film fu tagliuzzato dalla censura ma rimane comunque chiaro nei suoi intenti).

Eddie Taylor incastrato da ignoti di cui non si rivelerà l’identità è allora una metafora perfetta del pregiudizio rappresentato. Incarcerato per un crimine che non ha commesso, Eddie è perseguitato dalla incoerente moralità della massa, e il sistema legale statunitense (e quindi, a cascata, anche le istituzioni federali) ne esce sconfitto, rappresentato come un cieco legalismo lontano dagli individui. In questa società sei colpevole fino a prova contraria: non viceversa. Sta al singolo, nella sua disperazione, dimostrare il contrario o soccombere.

Il dramma assoluto di Henry Fonda in Sono innocente, fragile come non mai nella sua performance (Lang gli fece rigirare le scene svariate volte non perché non andassero bene ma proprio per stremarlo e portarlo al punto di rottura) è allora estremamente vicino a quello di Spencer Tracy in Furia: è il dramma dell’innocente che per provare la sua non-colpevolezza è obbligato ad agire nell’illegalità. È la morte dell’autodeterminazione, e quindi dell’american dream (che su questa in primis si basa). E se in Furia vi era nel finale uno spiraglio di positività, il protagonista aveva comunque dovuto ammettere e chiedere perdono per le cattive azioni intraprese per difendersi, in una orazione davanti a quella stessa massa che lo aveva condannato. In Sono innocente invece non ci può essere redenzione di alcun tipo: un criminale rimarrà sempre un criminale per chi lo guarda (ovvero i personaggi anonimi che lo circondano, non per chi gli è vicino né per Lang) e la sua ammonizione sarà continua, fino a che non sarà definitiva: sicura come la morte. 

Nota: l'autore dell'articolo lavora presso la Cineteca di Bologna
Continua a leggere su BadTaste