Somnia, la recensione
Con una trama classica per il cinema di paura che lentamente diventa altro, Somnia non è nè horror nè qualsiasi altra cosa voglia essere
Orfano di madre Cody passa di famiglia adottiva in famiglia adottiva, il motivo lo capiscono subito i suoi nuovi genitori: quando Cody si addormenta quel che sogna si materializza, e se i primi tempi è tutto farfalle colorate e bei ricordi, inevitabilmente arriveranno gli incubi ricorrenti.
Lungo tutto il film c’è qualcosa che non va, c’è un senso di orrore incompiuto che gli impedisce di andare al dunque. Indirizzato su binari abbastanza convenzionali il film sembra non voler decollare.
La creatura più spaventosa è inusualmente mostrata, cioè ci viene fatta vedere con eccessivo dettaglio, sottraendogli potere spaventoso, e anche la trama di lotta alla minaccia sembra non voler mai veramente partire. Pieno di inizi, Somnia rimanda continuamente l’intreccio. Il motivo lo si scopre nel finale che muta genere e fa, di tutto l’horror accumulato, un altro uso.
Determinato a non girare film dell’orrore usuali, questa volta Flanagan ha voluto provare ad usare la più classica delle storie di paura, una di quelle di cui pensiamo di sapere già tutto, per dire qualcos’altro, per spiazzare. Purtroppo però Somnia sta a metà tra i due generi e non soddisfa in nessuno dei due casi. Troppo esitante per funzionare davvero come horror, troppo puerile, mal scritto, goffo, mal recitato (e doppiato malissimo) per poter poi emozionare seriamente.
Ancora una volta montatore del suo film, Flanagan non sembra più quello che aveva dato un andamento strano ad Oculus, che aveva fatto un film con una voglia di assumere un altro atteggiamento nei confronti della classica storia dell’orrore. Somnia addirittura ad un certo punto gioca nel medesimo territorio di Babadook, tra rielaborazione di un lutto e una paradossale pacificazione con la minaccia che spaventa, ma non riesce a avere la sorprendente capacità del film di Jennifer Kent di unire gli opposti.