Solo: A Star Wars Story, la recensione del film

Abbiamo recensito per voi Solo: A Star Wars Story, diretto da Ron Howard

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Perché non ha seguito il mio consiglio. Non le avevo detto di non fidarsi di nessuno?

I reduci dalle prime proiezioni di Solo: A Star Wars Story potrebbero pensare di trovarsi di fronte a una battuta della nuovissima pellicola stellare dedicata alle origini del nostro contrabbandiere corelliano preferito. Effettivamente, la stessa battuta - o una parafrasi molto simile - compare nella pellicola e ne fissa, nel bene e nel male, il tema portante: la formazione, o meglio l’”anti-formazione” di un Han Solo giovane, irruento ma ancora idealista che deve imparare a sopravvivere negli ambienti più spietati della galassia.

Han Solo #4, copertina di Olivier Coipel

In realtà, la battuta è tratta da Indiana Jones e l’ultima crociata, precisamente dalla scena in cui il miliardario Donovan tenta di impartire all’altro personaggio celebre di Harrison Ford la stessa lezione di diffidenza nei confronti nel prossimo (non a caso, si tratta della pellicola che contiene un mini-film iniziale sulle origini del personaggio). È soltanto uno dei molti giochi di rimandi, in-universe ed extra-universe che Ron Howard e i Kasdan si sono divertiti a intessere per questa secondo anthology movie di Star Wars, che aveva il non facile compito di seguire a ruota l’ottimo Rogue One e di farsi strada attraverso una realizzazione movimentata e sofferta.

Inizieremo subito col dire che, nonostante il cambio alla regia di metà corsa, Solo: A Star Wars Story è prima di ogni altra cosa un film di Ron Howard, nella più positiva delle accezioni che questa affermazione implica. La pecca che più si può imputare a Solo è il fatto di essere una storia estremamente tradizionale, quasi archetipica: il “romanzo di formazione” di un giovane che parte dai bassifondi della galassia... e che più o meno continua a bazzicarli ma con una graduale presa di coscienza delle complessità e delle difficoltà che la vita ha da offrire nei primi anni di dominio Imperiale e delle lotte tra sindacati criminali.

In questo scenario, ognuno recita la sua parte secondo il più classico dei copioni, dal “mentore” di malefatte di Han, Tobias Beckett, alla sfuggente Qi’ra, motore e miraggio di tante scelte del protagonista, dal fedele compagno Chewbacca al meno affidabile e rivale Lando Calrissian, e sì, anche all’inquietante Dryden Vos, cattivo dichiarato e “di facciata” della pellicola interpretato da un Paul Bettany salito a bordo a produzione inoltrata, e che forse avrebbe meritato un po’ di spazio e di attenzione in più.

Manca forse in Solo (ma manca davvero?) quella “rivoluzione” così appariscente che aveva lasciato il segno con Rogue One, dove la volontà di esplorare un genere diverso come una storia di guerra travolgeva in modo più smaccato gli stereotipi starwarsiani che eravamo abituati a dare per scontati; così come forse manca una scena o un momento “epocale” che sia in grado di “fare la storia” della pellicola (anche se, a parere di chi scrive, la fuga da Kessel non ha nulla da invidiare ad altri momenti visivamente più celebri della saga stellare un tempo di George Lucas e ormai in inarrestabile espansione). A tratti il “minimalismo” della storia può lasciare a bocca asciutta chi cerca nella pellicola temi qui dichiaratamente assenti come la Forza, i Jedi, il destino della galassia come posta in gioco e la dimensione epica ed eroica degli scontri tra grandi eserciti.

Ma sarebbe forse sbagliato cercarli in quello che vuole e deve essere principalmente un racconto sulle origini di uno dei personaggi più amati della trilogia originale. In questo Solo non delude affatto e la mano sapiente di Howard fa bene a ispirarsi a quello che è un racconto di formazione quasi dickensiano, in cui ogni figura incontrata dal giovane protagonista rappresenta una sua sfaccettatura, un suo pregio o difetto estremizzato, e gli offre una lezione (in positivo o in negativo) che lo porta ad avvicinarsi alla canaglia apparentemente cinica che troveremo a contrattare in una taverna di Mos Eisley alcuni anni dopo.

Han Solo #1, variant cover di Mike Allred

Howard costruisce un percorso di iniziazione lineare e ben preciso e si prende i suoi tempi per farlo, muovendosi piuttosto lentamente nella prima metà della pellicola (ma non si era mossa la stessa obiezione anche a Rogue One?) per poi accelerare progressivamente, fino ad arrivare a un climax che - altra prima volta per Star Wars - non è costituito da una battaglia in grande scala, bensì da uno scontro in dimensione puramente personale.

Due sono i grandi pregi che Solo: A Star Wars Story regala al pubblico. Il primo è la regia di Howard, maestosa negli scenari, classicheggiante nei temi e nelle atmosfere, ed estremamente elegante, pulita e lucida a livello narrativo. Mai una volta lo spettatore è abbandonato a se stesso per capire cosa succede, e anche le scene d’azione più frenetiche sono incorniciate e sequenziate in maniera impeccabile, una boccata d’aria fresca e di eleganza in questa barbarica epoca dominata da un’orda di pellicole smarrite tra Michael Bay e Fast and Furious. Non è un caso che Howard sia amico e discepolo di Lucas da decenni, e Solo ha dalla sua l’indubbio vanto di essere la più “Lucasiana” delle nuove pellicole prendendo dal maestro gli elementi migliori quali la visionarietà, la passione per il meraviglioso e il recupero degli stilemi d’avventura più tradizionali e ancestrali.

Il secondo, che a una parte del pubblico generalista potrebbe sfuggire, è la miriade di rimandi, citazioni, collegamenti e intrecci alle altre opere dell’epopea stellare, che si tratti di allacci alle altre pellicole, a serie animate o cartacee, o perfino di meta-citazioni. Dall’arte marziale del Teras Kasi all’accademia di Carida, dal pianeta Mimban agli ufficiali Imperiali Tag e Bink, da Aurra Sing a Bossk, ogni nome fa suonare un campanello all’appassionato di vecchia data, a cui il film vuole palesemente riservare un trattamento particolare. Anche Rogue One non era stato avaro di citazioni, easter egg e riferimenti, ma se in quel caso volevano essere condimenti di una portata che mirava ad avere tutt’altro sapore, stavolta siamo di fronte a qualcosa di ben diverso.

Come minimo, Solo: A Star Wars Story alza la posta per gli appassionati di narrativa stellare multimediale e dichiara palesemente che tutti quegli elementi dell’Universo Espanso che spettatori e lettori temevano di vedere spazzati via per sempre continuano a fare parte del tessuto connettivo della Forza e attendono solo il momento giusto per essere reinseriti e riscritti in maniera più organica e coerente in questa nuova, definitiva incarnazione della saga stellare. Quando poi uno di essi finisce per essere argomento del colpo di scena finale e di una delle trame portanti del film, diventa chiaro che le produzioni starwarsiane hanno fatto un passo non indifferente verso quella che è la tecnica narrativa dell’Universo Cinematografico Marvel: un film ne preannuncia un altro, gli elementi inseriti in una pellicola riaffiorano nelle successive e vanno a suggerire un affresco più grande.

Han Solo #3, copertina di Lee Bermejo

Altra peculiarità di Solo (al gusto del singolo spettatore decidere se si tratta di qualcosa che arricchisce o sminuisce l’esperienza visiva del film) è infatti la sua potenziale incompiutezza: dire che alcune trame restano aperte e necessitino di una prosecuzione è dir poco, e lo stesso percorso di crescita di Han, per quanto abbia un arco soddisfacente e facile da seguire, dà l’impressione di avere ancora qualcosa che manchi per dirsi compiuto. Stiamo leggendo troppo tra le righe nei gossip che danno Alden Ehrenreich come vincolato alla Lucasfilm per altre pellicole, in Kathleen Kennedy che si lascia sfuggire (per poi ritrattare) che uno spin-off sul giovane Lando non sarebbe affatto male, che Boba Fett - dopo tante false partenze - sembra in procinto di avere a sua volta una pellicola da protagonista? Forse sì, ma poco conta come o dove la storia continuerà.

Quello che è certo è che la dimensione episodica delle pellicole stellari acquista ulteriore peso dopo l’esperienza di Solo. Sorte ironica per una pellicola che vorrebbe andare ad aggiungersi alle esperienze cinematografiche “autoconclusive”. Ma del resto l’ironia non manca affatto in Solo, ed è proprio questa la nota con cui tiriamo le fila. Lo Han, il Chewie e il Lando di questa storia, anche se con molti anni di meno sulle spalle, non falliscono nel mostrarci in fieri i personaggi scanzonati ed esuberanti che diventeranno negli episodi della trilogia classica: li riconosciamo, li apprezziamo e ci sentiamo a casa in loro compagnia.

In questo, Solo centra il bersaglio e regala un’avventura di stampo classico che diverte, a tratti entusiasma e non fa mancare il sense of wonder. Forse più di un ingrigito e disilluso contrabbandiere degli anni crepuscolari, il giovane Solo ha diritto di esclamare:

Chewie... siamo a casa!

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