Il sol dell'avvenire, la recensione
In Il sol dell'avvenire la classica commedia di Nanni Moretti prende di petto il vero argomento di tutto il suo cinema: l'appartenenza
La recensione di Il sol dell'avvenire, il nuovo film di Nanni Moretti, in uscita al cinema il 20 aprile e in concorso a Cannes
E Il sol dell’avvenire è questo: un film sull’appartenenza. C’è un regista (lo stesso Nanni Moretti che qui tutti chiamano Giovanni) che gira un film in costume su un uomo e una donna che lavorano nella sezione del partito comunista del quartiere Quarticciolo di Roma nel 1956. Invitano un circo ungherese ma proprio nei giorni in cui il circo è lì arriva la notizia che i sovietici sono entrati con la forza militare nel loro paese, scatenando un conflitto. Loro desidererebbero che il partito comunista italiano se ne dissociasse, ma non sarà così. Intanto nella vita del regista la moglie, anche produttrice, lo lascia. Lo lascia sentimentalmente, lo lascia professionalmente (produce per la prima volta anche il film di un altro) e lo lascia eticamente (questo altro film è un poliziesco violento il cui punto di vista etico Giovanni disprezza).
Il senso di appartenenza è ovunque. Appartenenza a un’idea di cinema, continuamente espressa e spiegata con tanto di esempi da altri film, insieme alla non appartenenza a un‘altra idea (quella di Netflix, quella del cinema in cui la violenza è intrattenimento), l’appartenenza a una generazione e una fazione culturale (qui chiama in causa Augias o anche Renzo Piano nei panni di se stessi per corroborare le sue tesi), l’appartenenza a un’ideologia (quella comunista ma non stalinista), quella agli affetti, anche a un certo tipo di scarpe e contro altre e indirettamente a un’idea di commedia e film da cui non si stacca con letizia, rifiutando un finale cupo per il film nel film e sognando di altre produzioni che forse non farà mai.
È facile vedere in tutto questo egocentrismo o uno specchio in cui Moretti guarda se stesso, ma stavolta tutto questo parlare di sé e di ciò a cui si sente o non si sente di appartenere (che poi sarebbe la maggioranza come già affermato in Caro Diario: “È quello che fanno tutti, è quello che guardano tutti” dirà a un certo punto sua moglie facendolo disperare) è il racconto di un’alterità non sempre blandita, non sempre benefica, non sempre positiva. Intransigenti i personaggi di Nanni Moretti lo sono sempre stati, ma stavolta nell’esserlo non c’è quella gioia a cui siamo abituati. È una testardaggine e un modo di essere fieri e solitari al tempo stesso. È il racconto di cosa significhi questa forma di coerenza alle proprie idee e cosa costi.
Così, quando alla fine come nei film di Tarantino la verità storica è sovvertita per affermare quella del cinema, migliore, e nel farlo sfilano tutti i volti di attori e attrici importanti per la filmografia di Moretti (ci sono tutti i vivi tranne una: Laura Morante), è difficile non commuoversi per uno spettatore per il quale i film di Nanni Moretti, e quindi quella carrellata di volti felici e cantanti, alcuni anche invecchiati, abbiano significato davvero qualcosa.