Sognando a New York - In The Heights, la recensione

Musical di quartiere, musical con sceneggiatura povera, ma grandissima felicità, latin jazz e colori, In The Heights è buono ma non ha la stoffa del classico

Critico e giornalista cinematografico


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Sognando a New York - In The Heights, la recensione

Da un chiringuito un uomo con la felicità negli occhi racconta a dei bambini la storia di un sogno, anzi di un sueñito, quello che lui aveva quando viveva nella zona di Washington Heights di New York. È la storia sua e di altri come lui, ragazzi con un sogno da realizzare che vivono nel quartiere a prevalenza portoricana di New York tra tradizioni e desiderio di conquistarsi un domani in qualche maniera. Sono storie d’amore, ma non c’è davvero la storia d’amore. Sono storie di grandi domani, ma non c’è davvero una storia di grandi domani. Sono storie di ragazzi ma non è davvero un film di ragazzi. L’unica cosa che In The Heights è davvero è un musical, non solo per la grande presenza di momenti musicali, ma perché anche quando la musica non c’è il film ha il colore, il sole e il ritmo ottimista dei musical.
Il resto sono accenni, abbozzi e piccole storielle che non riescono mai a caratterizzarlo davvero, rimangono i pretesti che sono.

Le musiche ovviamente orbitano moltissimo intorno al latin jazz (trovando in questo imprevedibili punti di contatto con La La Land), alle volte hanno testi che sembrano quelli di Bruce Springsteen (ragazzi che sognano di fuggire insieme per un domani migliore) e assoli di voce come i brani dei cartoni della Disney. È un miscuglio molto funzionale, coreografato, sempre in modi elaborati nella quantità, ma semplici nella qualità del ballo. Non è un musical di ballerini In The Heights, ma più uno di attori che si muovono a tempo in coreografie spesso di massa. Di nuovo un po’ come La La Land, in cui nessuno aveva la stoffa del vero ballerino, ma quel che contava era altro. Solo che nel film di Damien Chazelle c’era grande enfasi sulla recitazione e su un intreccio che sapeva servire benissimo la trama, il dramma e il godimento. Qui invece non c’è nessun impegno nella scrittura, il film è tutto sensazioni epidermiche, ovvero la parte più esplosiva dei musical senza quella più memorabile.

E quello che le sensazioni collegate ai balli, ai canti e alle situazioni dei molti protagonisti dicono è che il ghetto non è più il ghetto. Che quello che al cinema è sempre stato un luogo da cui fuggire a tutti i costi e da cui i migliori possono affrancarsi con la dedizione, ora invece è una comunità sicura. C’è un’estetista distrutta all’idea che il suo negozio si trasferisca in un altro quartiere adiacente, c’è una ragazza che studia a Stanford dove non si sente accettata perché portoricana e il cui padre però lo stesso vuole pagare per i suoi studi (lei non ci vuole tornare ma lui comunque già ha pagato, cioè i soldi non sono il problema), e poi ancora il sogno del più protagonista di tutti, aprirsi il chiringuito sulla spiaggia (nemmeno fosse un impiegato italiano), si scontra con il fatto che ha già un negozio di successo a Washington Heights. Il quartiere non è mai un problema ma un agevolatore di opportunità, semmai è troppo una bambagia.

In questo musical in cui l’appartenenza etnica è importantissima e in cui tutti i portoricani dimostrano di avere i medesimi “sogni americani” degli altri americani (cioè di non essere diversi e unici ma “proprio come tutti gli altri”), non stupisce nessuno che il protagonista sia il quartiere. Non nel senso di Washington Heights e dei suoi ambienti o dei suoi abitanti (per quanto il film ci calchi sopra parecchio a partire dal titolo) ma nel senso del concetto stesso di quartiere con una specifica prevalenza etnica. In The Heights non a caso è diretto da John M. Chu, quello che con Crazy & Rich ha segnato il più grande successo americano di un film senza bianchi, e vuole proprio rivedere il ruolo che nelle storie e nei miti americani ha il ghetto. Non solo non è un luogo di violenza e di crimine ma addirittura è il porto franco, è la famiglia che in certi casi va abbandonata ma che ti accoglie sempre e nasconde nel suo intimo la parte più autentica di ogni suo membro.

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