Soffocare

Victor lavora in una ricostruzione coloniale, ha una madre fuori di testa e soprattutto è dipendente dal sesso. Dal romanzo di Chuck Palahniuk, un adattamento che non funziona bene...

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Recensione a cura di ColinMckenzie

TitoloSoffocareRegiaClark Gregg
Voci originali
Sam Rockwell, Anjelica Huston, Kelly Macdonald, Jonah Bobo, Paz de la Huerta, Clark Gregg

Uscita13 maggio 2009 

Per chi non conosce Chuck Palahniuk e le sue opere, l'inizio di questo film potrà risultare un piccolo shock: leggende metropolitane sul sesso (in realtà, è tutto vero! E anche se non fosse, è divertente crederci), ma soprattutto sesso casuale dopo neanche tre minuti di film. Benvenuti nel mondo di uno dei più celebrati e influenti scrittori americani moderni, che mette insieme poesia e volgarità in maniera talmente sottile che alla fine non si capisce quale sia l'una e l'altra. Ma attenzione, non siamo di fronte allo scandalo facile, perfetto per finire in un'analisi sociale di qualche rivista à la page. Palahniuk è forse il maggior cantore di una certa inquietudine dei trentenni-quarantenni di oggi, come dimostrato dal capolavoro Fight Club.

Il problema di Soffocare (film) è che però non è Fight Club (film). La ragione è di una semplicità disarmante: il regista Clark Gregg non è David Fincher. E non si tratta soltanto di far notare che Gregg tecnicamente non vale un decimo del regista de Il curioso caso di Benjamin Button. Il vero problema è che Gregg ritiene che si possa portare al cinema un'opera assolutamente visionaria, che fonde dipendenza sessuale, cloni di Cristo, madri deliranti, amici maniaci, pornostar varie e tante altre cose che non vedrete mai sulla televisione generalista, come se si trattasse di una pellicola neorealista. La cinepresa non fa altro che seguire gli attori (il massimo che si concede è qualche fermo immagine), la fotografia è fatta professionalmente, ma senza nessun momento notevole. Insomma, stile zero, il contrario del lavoro (magari anche eccessivo nell'ultima parte, ma chi se ne importa) di Fincher in Fight Club.

Ora, per carità, del libro rimangono tante cose interessanti e non si può certo dire che i novanta minuti della pellicola risultino difficili da sopportare, tutt'altro. A tratti, peraltro, la malinconia di certe opere di Palahniuk, così come i complicati rapporti tra genitori e figli (qui forse al loro apice assoluto), emergono chiaramente. Si pensi al discorso (che comunque andava sviluppato meglio) tra la madre e un amico del figlio che si finge Victor per poter scoprire un segreto, un rapporto che diventa ovviamente idilliaco e che suscita la sua gelosia. O a una particolare scena con le vecchiette del luogo, che ha una grazia indefinita notevole.

Il problema è che, come detto, certe situazioni senza una mano decisa dietro alla macchina da presa risultano poco originali e non certo molto coraggiose. C'è qualcosa di veramente nuovo in un personaggio che vede tutti nudi? O in una maniaca in una scena che vorrebbe essere ridicola e profonda e che invece ricorda l'ultimo film di Giovanni Veronesi per come è girato modestamente? Il paradosso è che difficilmente le scene ambientate ai nostri giorni funzionano bene, mentre quelle nel passato decisamente meglio. Tuttavia, quest'ultime interrompono troppo spesso la narrazione principale e soprattutto hanno un enorme difetto: Anjelica Huston. Non mi riferisco tanto all'attrice, quanto alla scelta fatta. Impossibile, infatti, pensare che tra la donna che vediamo nel passato e quella del presente siano passati 25-30 anni. Insomma, un aspetto fastidioso e che avrebbe dovuto essere affrontato meglio, magari con un'attrice più giovane poi invecchiata pesantemente con il trucco. Peccato, perché diverse sequenze tra l'attrice e il figlio ragazzino sono la cosa migliore della pellicola, mentre non si può dire lo stesso del rapporto tra la Huston e Sam Rockwell, che spesso non risulta particolarmente credibile. Anche per Rockwell, peraltro, il discorso è complesso. Bravissimo a tratti (soprattutto quando vuole comunicare un'ambiguità notevole), molto meno quando vuole strafare.

In generale, l'impressione è che sia difficile trovare un tono. Si poteva, per esempio, mostrare l'assurdità di una situazione in cui un protagonista come Victor, dipendente dal sesso e con gravi problemi legati all'infanzia, sia quasi la persona più vicina alla normalità tra quelle che ci vengono presentate. O magari puntare maggiormente l'attenzione sulla ricerca del protagonista rispetto al suo passato (mentre invece a un certo punto quasi ci dimentichiamo di sua madre). Aggiungiamoci anche una voce off troppo ridondante all'inizio (ma serviva veramente tanto?), una serie di canzoni poco sfruttate (eppure il materiale era notevole, tra Radiohead, Twilight Singers e Clap Your Hands Say Yeah) e un finale un tantino troppo ottimista.

Gregg, insomma, sembra non voler fare delle scelte nette e coraggiose tra le varie opzioni a sua disposizione. E questo, per un adattamento di un romanzo di Palahniuk, è un peccato mortale...

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