La società della neve, recensione | Festival di Venezia

Tenendosi in equilibrio tra blockbuster e cinema d'autore, La società della neve riesce a essere un film realmente umano dal grande impianto

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione del film di chiusura del Festival di Venezia, La società della neve di J. A. Bayona

Il dolore sta nei dettagli, ce ne accorgiamo quando J. A. Bayona fa cadere l’aereo che fin dall’inizio sappiamo che cadrà, il volo privato che con sopra una squadra di rugby, alcuni loro parenti e pochi altri passeggeri, e che va a sbattere contro la cordigliera delle Ande, spezzandosi in due e lasciando i sopravvissuti tra le nevi. Sono dettagli di ossa rotte, corpi schiacciati, colpi, sedili sbalzati nel vuoto e via dicendo. Se pochi anni fa Robert Zemeckis aveva ricreato il miglior incidente aereo in un film con Flight, Bayona cerca di giocare in un altro campionato, rimanendo molto concentrato su quel che il suo film è: una storia corpi che ce resistono e corpi che cedono. 

Fino a quel momento abbiamo avuto un po’ di tempo per familiarizzare con questo ampio gruppo di personaggi, una squadra per l’appunto, e da quando rimangono nella neve, intenti a sopravvivere, invece il film li tratta come singoli, non come comunità. Si dovranno guadagnare l’affiatamento, come dovranno guadagnarsi a furia di morti (e come noto di cannibalismo) la conoscenza degli elementi e delle montagne per poter capire come vincerle. La società della neve cambia più volte il tipo di film che vuole essere, senza che la cosa pesi. Lo fa a mano a mano che avanza, diventando alla fine puro cinema di montagna, quello in cui degli uomini con la loro razionalità si pongono l’obiettivo di combattere e piegare la natura e nello specifico elementi che sembrano invincibili e destinati a ucciderli.

Bayona infatti fa un lavoro eccezionale su questo film dal grande impianto produttivo e dal pubblico potenzialmente molto ampio: utilizza tutto quello che ha imparato lavorando a Hollywood ma non dimentica di non essere lì (nonostante la produzione dì Netflix) e crea un fantastico ibrido tra un cinema sudamericano commerciale, fatto di umanità, di personaggi, di relazioni e di conquista di un senso anche per lo spettatore, e il più classico grandissimo spettacolo. Anche l’aspetto più duro di tutta la storia, cioè il ricorso al cannibalismo per non morire, è affrontato con un piglio che lo fa passare da decisione terribile a clamorosa quotidianità. Per noi infatti, come per i personaggi, a un certo punto passerà dall’essere qualcosa di disturbante a essere ordinario.

In più Bayona mostra qualcosa di per nulla scontato, un grande rispetto delle condizioni, delle vite e soprattutto dei moltissimi morti di questa storia (al decesso di ognuno arriva il nome in sovraimpressione, per farne pesare la scomparsa), ma è quando fa il salto da una prospettiva individualista a una collettivista, cioè quando il racconto diventa quello del ricostituirsi di un gruppo che, per l’appunto, funziona come una piccola società ideale, caratterizzata da una comunione di intenti e una forma di solidarietà e mutuo soccorso commoventi, che La società della neve inizia a fare davvero la differenza. Si guadagna sia la commozione finale, sia la possibilità di parlare non solo di quel disastro e non solo di sentimenti ma anche di un’idea più umana di costruzione sociale attraverso la concentrazione su bisogni, desideri e problemi realmente comuni.

Sei d'accordo con la nostra recensione di La società della neve? Scrivicelo nei commenti

Continua a leggere su BadTaste