La società della neve, recensione | Festival di Venezia
Tenendosi in equilibrio tra blockbuster e cinema d'autore, La società della neve riesce a essere un film realmente umano dal grande impianto
La recensione del film di chiusura del Festival di Venezia, La società della neve di J. A. Bayona
Fino a quel momento abbiamo avuto un po’ di tempo per familiarizzare con questo ampio gruppo di personaggi, una squadra per l’appunto, e da quando rimangono nella neve, intenti a sopravvivere, invece il film li tratta come singoli, non come comunità. Si dovranno guadagnare l’affiatamento, come dovranno guadagnarsi a furia di morti (e come noto di cannibalismo) la conoscenza degli elementi e delle montagne per poter capire come vincerle. La società della neve cambia più volte il tipo di film che vuole essere, senza che la cosa pesi. Lo fa a mano a mano che avanza, diventando alla fine puro cinema di montagna, quello in cui degli uomini con la loro razionalità si pongono l’obiettivo di combattere e piegare la natura e nello specifico elementi che sembrano invincibili e destinati a ucciderli.
In più Bayona mostra qualcosa di per nulla scontato, un grande rispetto delle condizioni, delle vite e soprattutto dei moltissimi morti di questa storia (al decesso di ognuno arriva il nome in sovraimpressione, per farne pesare la scomparsa), ma è quando fa il salto da una prospettiva individualista a una collettivista, cioè quando il racconto diventa quello del ricostituirsi di un gruppo che, per l’appunto, funziona come una piccola società ideale, caratterizzata da una comunione di intenti e una forma di solidarietà e mutuo soccorso commoventi, che La società della neve inizia a fare davvero la differenza. Si guadagna sia la commozione finale, sia la possibilità di parlare non solo di quel disastro e non solo di sentimenti ma anche di un’idea più umana di costruzione sociale attraverso la concentrazione su bisogni, desideri e problemi realmente comuni.
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