Snowpiercer (seconda stagione): la recensione
Snowpiercer è tornato con la seconda stagione su Netflix e un cattivo minaccioso interpretato da Sean Bean
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Se proprio vogliamo ridurre Snowpiercer a grossa metafora religiosa alla fine dell'umanità, allora possiamo dire che questa serie parla di messia. Inteso al plurale. Quanti tipi di figure messianiche esistono? La seconda stagione della serie TNT, da noi distribuita su Netflix, ne distingue almeno tre, tutte molto diverse tra di loro. La scrittura non è all'altezza di questi temi, e in generale anche quest'anno Snowpiercer rimane una serie con più difetti che pregi. Ma lo spunto per dire qualcosa c'è, e in ogni caso questa serie potrebbe mantenersi una buona compagna di serate.
È una delle poche vere provocazioni di una serie che anche stavolta non riesce a trarre il meglio dai suoi personaggi e dall'intreccio. Layton, Wilford e Melanie, oltre a corrispondere alle tre figure messianiche che dicevamo sopra, si fanno portavoci di un intreccio ondivago, fatto di brusche accelerazioni e ripensamenti. Con tutti i suoi temi e le sue ambientazioni, Snowpiercer non riesce mai a costruire una trama forte o chiara, ma incespica in un groviglio di situazioni e caratteri seriosi, ma raramente approfonditi o coerenti. Si affida allora a quella lettura che dicevamo prima, e che vede vari personaggi interpretare a modo loro il ruolo di salvatore. Layton era il primo, quello originario, l'uomo venuto dal fondo, letteralmente, per sfidare l'autorità e salvare gli schiavi.
Per il resto la serie rimane ambientata su un treno che, come il TARDIS, dà sempre l'idea di essere molto più grande all'interno rispetto all'esterno, e sul quale la lunghezza o la difficoltà degli spazi non è mai percepita. Il treno si allunga, si accorcia, compie manovre impossibili, torna indietro, riparte, Tutto è continua espansione e negazione dei limiti della serie – che avrebbero potuto essere i suoi punti di forza.