Snowpiercer, la recensione del film

Siamo andati a vedere al cinema Snowpiercer, il film di Bong Joon-ho tratto dall'omonimo fumetto cult francese

Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.


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Vi abbiamo proposto circa due settimane fa, la recensione del primo numero di Snowpiercer, Le Trasperceneige, il fumetto francese stampato in Italia da Editoriale Cosmo, che ha dato origine al film del regista coreano Bong Joon-ho. In questi giorni, siamo andati al cinema a vedere la pellicola, ed ecco quel che ce n'è parso.

Per i riferimenti precisi agli eventi e ai presupposti del fumetto, vi rimandiamo al pezzo di qualche giorno fa di Francesco Borgoglio. Se non sapete qual è la premessa del film, eccola in breve: il mondo è vittima di una glaciazione, indotta dalla liberazione nell'aria di un gas che avrebbe dovuto contrastare il surriscaldamento globale. La sostanza si è lasciata prendere la mano, innescando una reazione eccessiva, riducendo la Terra a un ghiacciolo e provocando l'estinzione apparente di qualsivoglia forma di vita sul pianeta. Tranne i pochi fortunati che si trovavano, in quel momento, sul folle treno intercontinentale, dotato di un motore virtualmente eterno, progettato e pilotato dal magnate delle ferrovie Wilford. Da quel momento in poi, il treno è il mondo. Contiene ogni singolo essere umano, anzi, ogni singolo essere vivente rimasto in vita. Se dovesse fermarsi, tutto sarebbe perduto, l'umanità definitivamente estinta. Ecco perché lo Snowpiercer, con il suo prezioso carico, viaggia senza mai fermarsi lungo le sue rotaie circolari, attorno al pianeta intero.

Non tutti sono felici sul magnifico treno di Mr. Wilford. Nell'ambiente claustrofobico del treno si ritrovano le dinamiche di sopraffazione e ingiustizia sociale che hanno caratterizzato la storia dell'Uomo. Se alla testa del treno vive Wilford, adorato come un dio dai passeggeri più agiati, che occupano le carrozze subito successive, la popolazione degli ultimi vagoni, la coda del treno, è una massa di poveracci, lavoratori sfruttati, segregati in un ambiente malsano e sovraffollato, costretti a subire ogni genere di sopruso sotto la minaccia delle armi e a nutrirsi di disgustosi blocchi di proteine mentre nelle altre zone del treno vengono coltivati ortaggi, frutta e persino allevati animali da bestiame (vi avevamo detto che il progettista è paranoico). Curtis, il protagonista del film, si sta preparando a guidare l'ennesima ribellione, a raggiungere la testa del treno, catturare Wilford e negoziare condizioni più umane per gli abitanti della coda. Cosa gli fa credere di poter riuscire dove gli altri hanno fallito? Il fatto che il treno sia ormai un ecosistema chiuso e la convinzione che certe risorse siano finite anche per i privilegiati abitanti delle carrozze più avanti.

Iniziamo con il dire che Snowpiercer è un bel film, con un cast notevolissimo, un convincentissimo Chris Evans, una splendida Tilda Swinton, un Ed Harris semplicemente perfetto, anche perché impegnato in una parte molto simile ad altre che ha già intepretato (come il deus ex machina di The Truman Show). Bong Joon-ho, tra i suoi diversi meriti, ha certamente quello di essere un ottimo direttore degli attori. L'idea di base del film è esattamente quella del fumetto. Là dove Jacques Lob e Benjamin Legrand hanno potuto costruire un'opera a fumetti di ampio respiro, approfondendo episodio dopo episodio i rapporti sociali e umani, raccontando le storie degli individui inseriti nel contesto assieme claustrofobico e totalizzante del treno, Bong Joon-ho isola un evento in particolare: la rivolta, che idealmente sublima tutti i sentimenti di contrasto, comunione, rivalsa e rabbia illustrati nell'originale. Saggiamente, lo fa iniziando in medias res e procedendo a ritroso, prendendosi delle pause durante l'azione (mai frenetica e non necessariamente centrale nella narrazione) per svelarci le personalità e le identità dei protagonisti coinvolti. Col risultato di cambiare in corsa il nostro sguardo su di loro, rivelandoci i motivi più profondi del loro agire, mai chiari fin da subito.

Altro punto a favore del regista coreano è l'ambiente immaginifico in cui si muovono i ribelli. Possiamo vedere il treno con i loro occhi, scoprire assieme a loro le meraviglie che gli sono state celate nei 17 anni della loro permanenza, sorprenderci attraverso il loro sguardo del lusso, della tecnologia, del fatto che le galline, credute estinte in coda, sfornino uova per gli abitanti dei vagoni più avanti. Il treno è il mondo, ci dice Wilford, e nel loro viaggio attraverso di esso Curtis e i suoi ne attraversano l'incredibile varietà di ambienti costretta nello spazio angusto del convoglio. Se lo Snowpiercer del fumetto francese è un miracolo di scienza retrò, di steampunk dal sapore antico, quello del film ha un'estetica decisamente più moderna, giocata sul contrasto tra lo squallore della coda e le luci, i colori, l'aspetto da rivista patinata della vita al di là delle paratie.

La differenza più grande, e forse anche l'unico vero difetto del film rispetto alla serie da cui trae spunto, è l'insistenza ridotta, certamente dettata da questioni di tempo narrativo, sulla resa visiva del treno come prigione, come ambiente claustrofobico e chiuso. Se nei discorsi dei protagonisti, nei dubbi morali che essi si pongono, nelle convinzioni che guidano le loro azioni, questa componente è molto presente, i disegni di Jean-Marc Rochette sono ben più efficaci nel farlo percepire al lettore di quanto non faccia la regia di Bong Joon-ho, a tratti davvero notevole per scelta e resa delle immagini.

In generale, Snowpiercer rimane uno dei migliori film tratti da un fumetto visti negli ultimi anni. Divertente, mai eccessivo nell'azione, crudo di una malvagità condita costantemente da uno humor nero mai catartico, che non spinge mai alla risata, ma perfetto nell'evitare la pesantezza insostenibile di una violenza a tratti davvero notevole, non solo da un punto di vista fisico, ma soprattutto morale. Ricco di spunti profondi, non solo quelli ricevuti in eredità dall'opera originale, mediati dall'immaginario orientale del regista. Il tutto condito da una sceneggiatura mai moralista, priva di lunghe spiegazioni, che lascia allo spettatore il compito di rispondere alle tante domande. Da vedere senza dubbio. Non solo per gli appassionati della nona arte.

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