Sly, la recensione

Dentro Sly ci sono amici e fan, oltre a Stallone stesso, che raccontano la sua vita perché sia ricordato come un artista prima che una star

Critico e giornalista cinematografico


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Sly

La recensione del documentario di Netflix Sly, sulla vita e la carriera di Sylvester Stallone, disponibile dal 3 novembre

Tutto si può dire a Sylvester Stallone ma non di essere intellettualmente disonesto. In Sly si capisce chiaramente quanto abbia bisogno di essere sempre in controllo di ciò che fa, anche quando è solo attore, cioè non è lo sceneggiatore, non è produttore e non è regista. Era in un certo senso in controllo agli inizi, lavorando di improvvisazione nelle piccole scene che gli venivano concesse e lo è sempre stato nella sua carriera. Quindi lo è anche qui, in un documentario su di sé, diretto da Thom Zimny ma prodotto da Stallone stesso per Netflix. Una sorta di risposta in quasi tempo reale alla serie documentaria (anch’essa per Netflix) di Schwarzenegger.

Sly è un monologo di Sylvester Stallone, solo saltuariamente interrotto da qualche intervento esterno di amici e fan (ovviamente Arnold Schwarzenegger, rimasto in modalità “un uomo e il suo sogno” dalla sua serie, ma anche il critico Wesley Morris, Quentin Tarantino in versione critico cinematografico, suo fratello Frank, Talia Shire e il regista di Cobra!), è la storia della vita e delle opere di Stallone pensato per mostrare come le due cose corrispondano esattamente. Parte dallo spunto di un trasloco da Los Angeles, dove ha passato tutta la sua vita professionale, a New York, dove è nato e cresciuto, un trasloco per ritrovare gli occhi della tigre. E c’è tutta una stucchevole metafora visiva delle sculture dei personaggi più iconici che ha interpretato che vengono impacchettate.

Questo è insomma un documentario totalmente conscio di sé, in cui Stallone si autorappresenta e nel quale è sempre chiaro che chi parla sappia già come sta uscendo e in ogni momento ha ben presente l’intento di stare scrivendo la propria storia da sé per i posteri. Non che non l’abbia già fatto ma Sly è l’operazione più divulgativa in questo senso. Non è quindi propriamente aperto e onesto, nonostante racconti molto (che poi è ciò che rende il documentario comunque interessante, avvincente e valevole) ci sono intere fasi o eventi su cui passa sopra velocemente (la morte del figlio Sage) e altri che proprio non tratta (il terribile periodo tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000, quando stava per finire nei film straight to DVD e aveva pensato di abbandonare il cinema) e invece altri meno interessanti che invece a lui stanno a cuore (il rapporto duro con il padre e la sua commovente risoluzione finale). Che non è quello che sarebbe successo se non fosse stato in controllo. Non c’è insomma niente che si possa scoprire su Stallone che lui non voglia raccontare, ma quel che c’è non è poco e vale la visione. 

La parte più interessante è allora proprio questa: come oggi a 77 anni Stallone scelga di raccontarsi. Non come una grande star hollywoodiana (o almeno non solo), che è ciò che è stato ed è nella testa della maggior parte delle persone, ma insistendo sulla parte autoriale della sua carriera. Tutto Sly è improntato a dimostrare che Stallone nasce, si evolve e morirà da artista (una buona parte delle interviste a lui sono filmate in casa, in mezzo alle molte opere d’arte che possiede, identificandolo con quel mondo). Tutto il racconto della sua carriera è fatto per spiegare in ogni momento le sue scelte artistiche, come abbia dato forma ai film suoi e in cui ha partecipato, come si possa essere attori/autori di film altrui e come in ogni momento in cui non aveva perso la direzione è stata la vena autoriale, il desiderio di essere filmmaker a guidarlo. Lo dice Wesley Morris all’inizio (dimenticando Charlie Chaplin e Buster Keaton): ci sono stati molti attori, che erano al tempo stesso registi e sceneggiatori di se stessi, lui è stata la prima superstar a farlo. Questo è come vuole essere ricordato.

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