Sinister, la recensione
A cinque anni di distanza dal soporifero remake di Ultimatum Alla Terra, Scott Derrickson torna al genere horror e lo fa regalando l'ennesimo colpaccio critico-commerciale alla Blumhouse...
Etichettare Sinister come l'ennesimo successo della Blumhouse Pictures di Jason Blum in cui il basso budget produttivo viene sfruttato per generare degli utili proporzionalmente stratosferici sarebbe riduttivo. Non tanto per il film in questione, quanto per la casa di produzione appena citata.
Può accadere di viaggiare a alti regimi per poi impantanarsi in un finale non degno del resto come è accaduto con Insidious di James Wan, per carità.
Il nostro Jason si sta creando un'interessante nicchia.
Non a caso, gli amanti dell'horror sono in trepidante attesa di Le Streghe di Salem di Rob Zombie, prodotto anch'esso da Blum e in arrivo il 18 aprile in Italia, generalmente accolto con favore critico in quegli eventi come il Toronto Film Festival o il Festival di Torino in cui è già stato proiettato.
Tornando a Sinister, uscito con qualche mese di ritardo rispetto agli Stati Uniti, ci troviamo di fronte a uno Scott Derrickson che, dopo l'appannatissimo ai limiti del soporifero remake di Ultimatum Alla Terra, pare aver ritrovato una dimensione e un registro più consoni a quelli di un filmmaker che ci ha già consegnato roba come Hellraiser: Inferno – che sarà straight-to-dvd e tutto quello che volete, ma quando ho a che fare con Pinhead il mio cuoricino tende sempre a intenerirsi – e l'ottimo L'Esorcismo di Emily Rose.
Nel raccontare la storia di uno scrittore di cronaca nera che, dopo aver raggiunto la celebrità, vive ormai da dieci anni nell'anonimato di una carriera finita ormai nel buio di un sottoscala in cui la luce è fulminata ed è deciso a tornare alla ribaltà praticamente a qualcunque costo, Derrickson non nasconde l'uso e l'abuso di tanti cliché del genere, facendone, paradossalmente, un punto di forza. Fondamentalmente perché vengono impiegati come modo per depistarci.
Il blocco dello scrittore condito da gomito alzato.
Il mettere a repentaglio la propria famiglia quando si hanno già diversi indizi che si sta percorrendo una strada estremamente pericolosa.
Il villain/entità dal make-up inquietante.
I bambini che fanno accapponare la pelle.
Il found-footage.
L'entità pagana assassina.
Il voyeurismo e l'ossessione per il successo del protagonista.
Perché a conti fatti Sinister, pur avendo tutti i crismi del film dell'orrore ben riuscito, intesse una discussione incentrata prevalentemente su questi due fattori. E sono entrambi riconducibili tanto al protagonista, davvero ottimamente interpretato da un Ethan Hawke capace di meritarsi il premio come uno dei peggiori padri cinematografici di sempre, quanto dallo spettatore. Quando guardiamo il suo Ellison Oswalt che non riesce a trattenersi dall'esaminare nel buio della notte le tragiche e truculenti morti dei malcapitati protagonisti dei filmini in Super 8 che ritrova nella soffitta della casa fresca di affitto – ognuno di essi etichettato con un nome innocuo che in realtà presagisce il destino dei protagonisti – pare quasi di sentire la voce del regista che, ironico e retorico, ci domanda “Allora, sei pronto a giudicare facilmente questo poveraccio preso a calci dalla vita, ma tu non stai forse facendo altrettanto?”. Fra film, protagonista e spettatore si viene a creare una strana, morbosa relazione che ricorda, più che gli svariati appartenenti al sotto genere degli horror a base di case infestate, presenze demoniache e found footage, quella che viene generata da capisaldi del cosiddetto “metacinema” come L'Occhio che Uccide di Michael Powell. Sinister, pur non aggiungendo nulla di particolarmente innovativo o drastico al genere riesce, proprio se non addirittura in misura maggiore rispetto all'Esorcismo di Emily Rose, a esercitare uno strano, irresistibile (malsano?) magnetismo nei confronti dell'audience. Lo spettatore guarda, critica il protagonista – e di rimando sé stesso – ma proprio come lui non può esimersi dal continuare a osservare. Curiosamente. Morbosamente. E come potrete constatare vedendo il lungometraggio, Derrickson si permette anche di rimarcare questo procedimento d'immedesimazione e catarsi con un paio di soluzioni visive davvero interessanti.
Già questo basterebbe a elevare Sinister al di sopra dei “film di paura” ordinari e dozzinali. A ciò va poi aggiunto, come elemento tutt'altro che marginale o accessorio, il perfetto accompagnamento sonoro elaborato da Christopher Young – già collaboratore di Derrickson per Emily Rose. “Scrivere di musica è come ballare di architettura” disse una volta Elvis Costello. Lascerò che siano le vostre orecchie a guidare e dettare il ritmo dei brividi che saliranno lungo le vostre schiene.