Sing, la recensione

Animali carini che cantano e ballano, eppure, contro ogni aspettativa, Sing è anche un bel film. Un musical classico contaminato con il talent show

Critico e giornalista cinematografico


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C’è sempre un gancio molto basso e terra terra nei cartoni Illumination, lo studio di Cattivissimo Me, Minions e Pets. Ci sono bambini teneri o esserini simpatici, gag molto basilari oppure animali domestici che si fanno grattare, oppure ancora, come in questo caso, animali antropomorfi che cantano e ballano. Come se partorissero i film alla maniera di video virali (e gli incassi gli danno ragione sempre), sembrano pensare storie intorno a trailer fatti per Facebook. Impressione che viene spesso confermata se non rilanciata dall’inconsistenza dei risultati finali, nonchè dalla miriade di piccole clip e sketch animate disegnati e pensati esclusivamente per la promozione (più di ogni altro studio). Per questo forse è così evidente la differenza di Sing, probabilmente il primo vero “film” a tutto tondo di questo studio.

Realizzato da una coppia con provenienze diverse che si completa molto bene, due esordienti nelle produzioni Illumination, un regista e sceneggiatore di film (Garth Jennings) e un animatore di lungo corso (Christophe Lourdelet), Sing ha una storia e dei personaggi. È una versione un po’ distorta e un po’ metropolitana di un musical classico, quelli in cui i personaggi devono mettere in piedi uno spettacolo e questa cosa, in sè, è lo spettacolo. Un po’ inoltre si muove in una città di animali, come faceva Zootropolis meno di un anno fa.

Sing centra una vitalità che è la chiave stessa dei musical migliori

Seguiamo sei storie di aspiranti cantanti diversi, ognuno con un background e uno stereotipo da scrollarsi di dosso (la casalinga, il delinquente, la mezza tacca con l’anima jazz, la timida dalla voce fantastica), tutti convogliati dall’energetico impresario Buster Moon per un nuovo grande spettacolo, il primo a coinvolgere cantanti presi dal pubblico e selezionati dallo stesso Moon.

Il modello sono i talent show televisivi, le esibizioni funzionano come le selezioni (un meccanismo tra il ridicolo e il rivelatore cui il pubblico è molto abituato) e poi la formazione dello spettacolo come una “scuola” in cui migliorare e scoprire il proprio talento e quindi se stessi. È la mitologia dei grandi domani e dell’arte nascosta in persone ordinarie dotate di un sogno immenso, delle famiglie che non capiscono o che spronano, della lotta per staccarsi da un contesto cui si sente di non appartenere. Quel complesso di interazioni e intenzioni che originariamente appartenevano al musical e che poi la televisione ha fatto propri trovandoli nella realtà, ora il cinema se li riprende.

Gli elementi per il fallimento c’erano insomma tutti, eppure Sing centra una vitalità che è la chiave stessa dei musical migliori. Ed è tutto principalmente imputabile a Buster Moon, il koala impresario, quello che cova il sogno più grande di tutti ed è disposto ad ogni cosa con un’energia cui non siamo abituati. L’unico personaggio che davvero suona originale e dotato di una personalità riconoscibile. Curioso che come nei talent televisivi anche qui sia il “giudice” a fare la differenza e reggere lo show, più dei concorrenti.

Non guasta il fatto che Jennings e Lourdelet, letteralmente non sbaglino una gag, infilando vecchi trucchi (il montaggio in sequenza delle audizioni andate male è un gioiello sia di ritmo che di abbinamento personalità/animale) e un inedito umorismo deadpan (il koala che si mette a lavare macchine come se nuotasse in piscina). Passando dal musical classico, al talent show, fino alla commedia brillante e sofisticata, fino ancora ad una curiosa variazione animata del cinema indie sognatore americano (l’elefantina timida sembra vivere in un quartiere da Precious) Sing non si ferma un attimo e anche i momenti più scontati e “Illumination” risultano digeribili.

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