Simpathy for Lady Vengeance

Lee Geum-Ja, a diciannove anni, si assume la responsabilità del rapimento e dell’omicidio di un bambino. Ma dietro la sua confessione, si nasconde il vero colpevole. Uscita di prigione dopo 13 anni, la donna ha un solo obiettivo: vendicarsi.

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Perché Park Chan-Wook è considerato (a ragione) uno dei cineasti più eccitanti in circolazione? I motivi sono diversi. Sicuramente, la sua maniera originalissima di mettere in scena la violenza piace a molti appassionati di film estremi (che ovviamente conoscono a memoria i classici di Takashi Miike). Ma quello che lo differenzia dai vari Tarantino e Rodriguez, per cui la violenza è semplicemente un gioco, è sicuramente il modo in cui affronta queste tematiche. Anche quando è ironico, non si ha mai l’impressione che il regista affronti in maniera infantile un tema così serio, come dimostra il suo capolavoro Old Boy, in cui la vendetta veniva presentata con tutte le conseguenze negative collegate a questo sentimento.

E a proposito dei suoi film precedenti, impossibile non avere un senso di dejà-vu. Come in Simpathy for Mr. Vengeance, anche qui c’è il rapimento di un bambino (che ovviamente porta a conseguenze drammatiche). E come in Old Boy, il/la protagonista attende un tempo sconvolgentemente lungo (in questo caso, sono due anni in meno…) prima di potersi dedicare alla sua vendetta.
Abbiamo quindi il ritratto di una donna incredibilmente forte, in grado di superare ogni avversità in maniera intelligente, senza perdersi mai d’animo (insomma, se non si fosse capito, siamo ad anni luce di distanza alla Sposa di killbilliana memoria). La prova migliore l’abbiamo nei numerosi flashback che descrivono la vita della prigione e che ci mostrano un universo completamente diverso dal nostro.
E ci sono dei momenti visivamente bellissimi (penso ai titoli di testa o ad alcune scene nella neve), così come anche i siparietti comici (come quelli in Australia) sono veramente divertenti.

Eppure, si ha l’impressione che il regista si stia incamminando su una strada pericolosa: l’accademismo. Che stia insomma percorrendo un cammino simile a quello di Takeshi Kitano (dopo Hana-Bi) o Wong Kar Wai (a partire da Happy Together), in cui l’estetica fine a se stessa la faccia troppo spesso da padrone. Sono numerose le scene e i momenti in cui Park Chan-Wook sembra impegnato ad ammirarsi, piuttosto che a raccontare una storia.
E anche il finale, abbastanza inaspettato per come arriva, è tutt’altro che originale, considerando che il punto di riferimento è un classico giallo europeo.
Insomma, luci (ancora la maggior parte) e ombre (inquietantemente troppe) in questa pellicola. Speriamo che il timone ritorni presto nella posizione giusta, abbiamo un gran bisogno di Park Chan-Wook e del suo cinema…

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