Silo (prima stagione), la recensione

La prima stagione di Silo è tesa e avvincente, supportata da una fastosa messinscena e interrogativi filosofici di rara profondità

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La nostra recensione della prima stagione di Silo, disponibile su Apple TV+ ogni settimana da venerdì 5 maggio.

Una spirale di mistero, letteralmente. Una struttura architettonica che rimanda, forse non a caso, al filamento di dna (espediente visivo già intelligentemente usato nel maestoso Gattaca). Con questo simbolismo d’impatto immediato si presenta Silo, nuova serie distribuita da Apple derivata dalla saga letteraria distopica di Hugh Howey. Un racconto di fantascienza che si tramuta, ben presto, in un dramma poliziesco su larga scala, seppur raccolto nel microcosmo del silo del titolo.

La storia è presto detta: in un futuro non precisato, in cui il pianeta è divenuto invivibile, l’umanità si è rifugiata sottoterra in una struttura discendente di circa cento piani che accoglie diecimila anime, proteggendole da un habitat letale costantemente osservato da poche telecamere puntate sulla desolazione esterna. All’interno del silo, la società è strutturata secondo rigidi schematismi che controllano ogni cosa; dall’instradamento professionale al controllo delle nascite, passando per il divieto di utilizzare un certo tipo di tecnologie e utensili.

Patto di fiducia

Le regole che governano il silo sono contenute tutte all’interno del Patto, una sorta di Bibbia che, seppur basata su pilastri assolutamente laici, viene seguita alla lettera con fervore che potremmo talvolta definire fanatico. In questo contesto, l’ingegnere Juliette Nichols (Rebecca Ferguson, intensa e nervosa) si trova a dover affrontare la perdita - avvenuta in circostanze poco chiare - di una persona a lei molto vicina; nel tentativo di far luce sull’accaduto, la donna inizia una scalata che la porta a divenire uno degli sceriffi del silo. Le sue indagini procedono in parallelo ai tentativi, da parte del misterioso Sims (interpretato dal rapper Common) di monitorare e limitare le sue scoperte.

La disinformazione è uno dei cardini di Silo; uno spettro che aleggia e che criminalizza ogni afflato di curiosità che Juliette - e come lei altri - manifestano nei confronti di una società che intuiscono basata su omissioni e menzogne. L’unico patto degno di fiducia sembra essere quello che Juliette stipula con pochissime persone attorno a lei, in primis la strana famiglia formatasi durante i suoi anni nei reparti di manutenzione del generatore del silo. La società attorno alla protagonista è un'incognita, si ha la netta sensazione che il tradimento possa nascondersi dietro ogni angolo; un clima di tensione oppressivo e spesso disperante, contro il quale Juliette si batte con eroico piglio e ferrea determinazione.

Spirale ascendente

Mai come in Silo, la componente scenografica risulta emblematica della trama stessa; partendo dal basso dei quartieri di manutenzione, Juliette ascende alla carica di sceriffo e ai "piani alti". Un'ascesa che coincide col far luce su parte dei misteri che circondano il silo stesso, la cui costruzione si perde nel tempo fino ad assumere i contorni di un dogma mai davvero conoscibile, ma comunque impossibile da mettere in discussione. Il saliscendi continuo attraverso i gradini della struttura è eco di gioie dolori che l'indagine di Juliette porta con sé, e riporta con la mente a tanti cineasti che hanno sapientemente usato lo spazio scenico per esteriorizzare il mondo emotivo dei loro protagonisti.

A tal proposito, è impossibile parlare dei molti pregi della serie di Graham Yost senza elogiare il maestoso lavoro dello scenografo britannico Gavin Bocquet (Star Wars: Episodi I, II e III, Stardust). Tra le sue mani, la messinscena diventa messaggio. Nell'usura delle mura, nelle abrasioni materiche, nella ripetizione claustrofobica di forme e ambienti c'è il sunto di un'intera società in cui la diversità è malvista, l'individualizzazione è soffocata e la produttività ubbidiente sembra essere l'unico ideale condiviso. Una società incapace di comprendere il proprio passato (non c'è ammodernamento nello stile del silo, tutto ristagna in un passato/presente immutabile) e disinteressata a costruire un futuro migliore.

Mistero e morale

Aggiungendo con sapiente calma le tessere a creare un mosaico straniante e cupo, Silo dipana il giallo al centro del racconto ampliando la nostra prospettiva; la mera indagine su una serie di morti sospette diviene strumento per comprendere un mondo omertoso, in cui ogni domanda fuori dal coro potrebbe causare ripercussioni sull'incauto curioso che l'avesse posta. In quest'ottica, la serie di Yost è un'accorata difesa del diritto a conoscere, a porsi interrogativi sempre più profondi e scomodi, cercando le cause nascoste dietro fatti e situazioni e tentando di collocarli in un quadro più ampio possibile.

Come le migliori opere narrative, Silo offre al pubblico una ricchezza di livelli di lettura che compete con la stratificazione delle sue architetture; salta agli occhi la critica sociale alle gerarchie ferree e la concezione soffocante dell'uomo visto in funzione della propria produttività. Indaga inoltre il secolare concetto di bene comune e, su un piano filosofico, l'eterna dicotomia tra conoscenza e ignoranza, chiedendosi (e chiedendoci) fin dove una bugia possa essere tollerata al fine di preservare l'equilibrio. Al netto dei nodi morali che pone davanti allo spettatore, è un racconto avvincente e teso come una corda di violino, impreziosito da ritratti psicologici di sorprendente delicatezza; salutiamo con gratitudine questa prima stagione, chiusasi su un cliffhanger che non può che spingerci a scendere ancora più in profondità per poter, un domani, uscire a riveder le stelle.

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