Il signore delle formiche, la recensione

La ricostruzione sentimentale del caso Braibanti sentimentale non lo è mai, confermando il cinema di papà più borioso dei nostri anni

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il signore delle formiche, il film di Gianni Amelio in concorso al Festival di Venezia

Ma come si può raccontare una storia simile senza esprimere un briciolo di passione, senza nemmeno un po’ di impeto? Come si può raccontare una storia di soprusi e vergogna nazionale puntando (ovviamente) sull’indignazione, senza la rabbia civile o anche solo l’ardore personale? Lo fa Gianni Amelio con Il signore delle formiche, un film che sembra pensare di sé quello che ad un certo punto fa dire ad uno dei suoi personaggi: “Quando diciamo che qualcosa è bello cosa intendiamo se non che è intenso e profondo?”. 

Il signore delle formiche questo vuole essere, così intenso e profondo da essere costellato di una recitazione enfatica e teatrale, dialogato con un italiano da libro di testo che fa dire a persone comuni cose come: “Ma che triste approdo la bestemmia” o “Abbiamo camminato tanto per arrivare dove?” nel mezzo di conversazioni ordinarie. Un film che nel raccontare la storia del caso Braibanti e quindi del clamoroso uso del reato di plagio per perseguire un omosessuale, non riesce a gridare di furore mai ma preferisce apparire elevato appaltando ad un intellettualismo molto di facciata la certificazione del proprio status, cercando il name dropping (da Hemingway a Moravia fino a Levi), il fare affettato e le voci impostate.

Non manca nessun punto dalla lista degli elementi del “cinema di papà” dei nostri anni, incluso il più scontato parallelo tra la vita del protagonista e la sua professione, cioè lo studio delle formiche. Metafore così meccaniche e prevedibili da rendere subito il film uguale a mille altri, impedendogli subito di avere un senso suo vero e personale, dolori raccontati in maniere così smaccate da depotenziare qualsiasi empatia, come quando la madre di Braibanti si trascina fino al centro di una piazza per accasciarsi come sotto ad un immaginario riflettore dopo aver letto una scritta sul muro ingiuriosa nei confronti del figlio.

Dopo due ore così non serve più a nulla centrare (e molto!) una scena bella come la testimonianza di un ragazzo distrutto dall’elettroshock, tutta giocata inquadrando solo lui, concentrandosi sulla sua fatica e negando il controcampo (ma non è un’idea di questo film, lo inventava Truffaut in I 400 colpi). Non servirà a nulla nemmeno un finale clamoroso per bellezza, fattura, delicatezza e sentimento (esattamente tutto ciò che il resto del film non è), sotto una pioggia accennata, con un controluce eccezionale, Luigi Lo Cascio, finalmente in palla, con degli occhi dolcissimi e un’aria stupenda, di vero amore. Finalmente.

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