Il signore delle formiche, la recensione
La ricostruzione sentimentale del caso Braibanti sentimentale non lo è mai, confermando il cinema di papà più borioso dei nostri anni
La recensione di Il signore delle formiche, il film di Gianni Amelio in concorso al Festival di Venezia
Il signore delle formiche questo vuole essere, così intenso e profondo da essere costellato di una recitazione enfatica e teatrale, dialogato con un italiano da libro di testo che fa dire a persone comuni cose come: “Ma che triste approdo la bestemmia” o “Abbiamo camminato tanto per arrivare dove?” nel mezzo di conversazioni ordinarie. Un film che nel raccontare la storia del caso Braibanti e quindi del clamoroso uso del reato di plagio per perseguire un omosessuale, non riesce a gridare di furore mai ma preferisce apparire elevato appaltando ad un intellettualismo molto di facciata la certificazione del proprio status, cercando il name dropping (da Hemingway a Moravia fino a Levi), il fare affettato e le voci impostate.
Dopo due ore così non serve più a nulla centrare (e molto!) una scena bella come la testimonianza di un ragazzo distrutto dall’elettroshock, tutta giocata inquadrando solo lui, concentrandosi sulla sua fatica e negando il controcampo (ma non è un’idea di questo film, lo inventava Truffaut in I 400 colpi). Non servirà a nulla nemmeno un finale clamoroso per bellezza, fattura, delicatezza e sentimento (esattamente tutto ciò che il resto del film non è), sotto una pioggia accennata, con un controluce eccezionale, Luigi Lo Cascio, finalmente in palla, con degli occhi dolcissimi e un’aria stupenda, di vero amore. Finalmente.