Sick of Myself, la recensione

Molto vicino agli stilemi e ai temi di La persona peggiore del mondo, Sick of Myself di Kristoffer Borgli esplora quella stessa crisi identitaria di una millennial schiacciata da un amore fagocitante e desiderosa di affermare a tutti i costi il suo “io esisto”.

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La recensione di Sick of Myself, al cinema dal 28 settembre

Al limite tra il dramma e la commedia grottesca, Sick of Myself è un character-study su una giovane donna e il suo desiderio patologico di essere amata e ammirata. Molto vicino agli stilemi e ai temi di La persona peggiore del mondo (tra l’altro anch’esso un film norvegese ambientato ad Oslo), Sick of Myself di Kristoffer Borgli esplora quella stessa crisi identitaria di una millennial schiacciata da un amore fagocitante e desiderosa di affermare a tutti i costi il suo “io esisto”. Diversamente da Trier, Borgli declina tuttavia quella tensione narcisista totalmente in negativo, facendo purtroppo strabordare il suo fortissimo cinismo in una storia apatica e inconcludente.

Sick of Myself racconta di Signe (Kristine Kujath Thorp) e Thomas (Eirik Sæther), una giovane coppia di arrampicatori sociali senza scrupoli, volutamente patetici nel loro desiderio di sovrastarsi l’un l’altra. Signe lavora in un bar controvoglia, mentre Thomas ruba pezzi di arredamento per poi spacciarli come sue opere d’arte, avendo anche un buon successo (espone nelle gallerie, viene intervistato). Lei lo supporta, ma la sua frustrazione è notevole. Fin dalla prima scena Kristoffer Borgli mostra benissimo il rapporto malato tra questi due personaggi, usando tutti gli strumenti del caso (recitazione, regia, scrittura) per veicolare sottilmente il conflitto che farà poi sbottare improvvisamente Signe. Dopo infatti aver salvato una donna dall’aggressione di un cane e non aver ricevuto tutti gli elogi che pensava, Signe decide di compiere un atto estremo pur di farsi notare da Thomas e dal mondo: abusare di una droga illegale russa per farsi venire un gravissimo problema alla pelle, che ne deformerà il volto e le causerà seri problemi di salute.

La premessa di Sick of Myself è fortissima, così come inaspettato e angosciante è il gesto di Signe, che ci mette nella scomoda posizione di volerla vedere al contempo punita per la sua idiozia e vittoriosa nel suo percorso di guarigione mentale. Il suo è un personaggio volutamente negativo, antipatico, ma ciò che fa affondare il film è qualcosa di più elementare: Borgli guarda sempre Signe con disprezzo, senza alcuna empatia, mettendoci in una posizione difficilissima, poiché a tale follia superficiale non viene mai contrapposta la ricerca della fragilità più profonda della protagonista.

Una visione superficiale potrebbe definire questo sguardo sessista, ma non lo è, perché il fatto che la protagonista sia donna non ha niente a che fare con ciò che vuole raccontare Borgli (e tra l’altro pure Thomas è rappresentato come uno scemo insalvabile, al pari di Signe). Il fatto è che Borgli è così platealmente avverso ai suoi stessi personaggi che tale cinismo, unito all’andamento unicamente discendente della storia, ci butta completamente fuori dal film e da qualsiasi intento discorsivo. Un intento che è comprensibilissimo a parole (e che suona più o meno come “la società di oggi ci porta a fare questi gesti folli”), ma cinematograficamente debolissimo. Peccato, perché l’inizio era davvero promettente.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Sick of Myself? Scrivetelo nei commenti!

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