Siccità, la recensione

Con Siccità Virzì ha girato un film di un'umanità devastante, capace di prelevare qualcosa di quello che siamo dall'intimo e mostrarlo a tutti, la recensione

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Siccità, il film di Paolo Virzì presentato fuori concorso al Festival di Venezia

In passato ho usato il termine “italiano” come aggettivo denigrante per i film che mostravano tutti i difetti più tipici delle nostre produzioni. Non sono mai stato più pentito di oggi di averlo fatto, e so che non accadrà mai più. Non ritratto quelle valutazioni (io lo ricordo perché ho usato quel termine e non erano abbagli!) ma mi sono pentito di aver scelto quell’aggettivo guardando questo film di Paolo Virzì, che contiene tutto quello che altrove è un difetto e dimostra che non deve per forza essere così. Questo film mi ha ricordato meglio di quanto non potessi fare io stesso qualcosa che entrambi sappiamo, cioè quale potenza umana esista nel nostro approccio alle storie e che tenerezza incontenibile sappia scatenare. Ma se non userò più “italiano” come aggettivo denigratorio non è solo perché non è una categoria critica (non ci si avvicina nemmeno ad esserlo), quanto perché se pure lo fosse sarebbe una categoria fallace, sarebbe l’arbitraria decisione di dimenticare il meglio e accettare il peggio di quel che siamo. Questa è una prospettiva sbagliata e l'ho capito guardando Siccità.

Questo film che fa riferimento ad un genere che non viene dalla nostra tradizione e che tuttavia è un lungometraggio che poteva essere scritto, diretto e interpretato solo e unicamente in Italia, racconta l’essere farsa della tragedia e gli sforzi inascoltati dei pochi a fronte della rumorosa cialtroneria dei molti, delle situazioni che paiono non cambiare mai e di noi, che balliamo sopra tutto ciò, che non smettiamo di essere noi durante le tragedie, che ci minacciamo di morte, ci uccidiamo ma anche ci offriamo dei panini mettendo un attimo da parte il fucile, che ci facciamo scherzi terribili, ci baciamo e ci riuniamo o non ci riuniamo abbracciando con un impeto vitale così desiderabile e sopito il grottesco che ci circonda, fingendo di non vederlo.

È impossibile guardare questa storia di fantasia di una Roma nella quale non piove da 3 anni e nella quale sta per finire l’acqua pubblica, distrutta e derelitta, ridotta a puro caos e disuguaglianza, senza riconoscere nonni, genitori, amici, parenti, cugini, colleghi, condòmini o amici di social. Il termine “noi” nel senso più pieno. Impossibile non scorgere in questo film perfetto scritto da Francesca Archibugi, Paolo Giordano, Francesco Piccolo e Paolo Virzì, parte di quello che siamo e che ci circonda, esposta perché sia possibile vederla e inevitabilmente, nel farlo, commuoverci per aver riconosciuto qualcosa di intimo. Questo è quello che chiamiamo un cinema umano. E ad oggi non esiste nessuno in Italia che lavori a questi livelli di ambizione produttiva che sappia ritrarre le persone per come sono realmente, ridicole sempre ma non per questo disprezzabili, come Paolo Virzì.

È fantascienza quella di Siccità ma è il nostro presente. Ci sono gli idrologi in televisione ma in realtà sono i virologi che abbiamo visto avvicendarsi, ci sono le piccole star dei social e una narrazione istantanea del presente così concreta e contaminata delle più profonde radici di questi atteggiamenti da essere subito universale, eterna. Nonostante in Siccità ci sia un senso costante di minaccia per una situazione che precipita, tutte le vite dei personaggi ci scorrono sopra, quasi fingendo che non esista il problema ma poi segretamente e sommessamente attendendo un raggio di sole che torni ad illuminare tutto, anche solo per un momento, nel suo opposto: nella pioggia. E questo bisogno così forte di un raggio di sole, che non viene mai espresso chiaramente, è la vera arma di un film italiano che contiene lo stato dell'arte del nostro mestiere (e che è recitato come non si vedeva da anni). Tutti, loro e noi, non possiamo non attenderlo sempre, ogni giorno e senza dircelo.

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