Showing Up, la recensione | Cannes 75

Lo studio di una donna dimessa, un'artista in cerca di emersione, diventa una blanda esposizione di aspirazioni non raggiunte

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Showing Up, il film di Kelly Reichardt presentato in concorso a Cannes

Ci sono molte cose sulle quali Kelly Reichardt ha un’opinione forte. Principalmente sull’umanità e il suo rapporto con la creazione, ma anche (ed è la parte migliore di un film che non ne ha molte di parti buone) sulla piccola miseria e ordinaria inutilità dell’atto stesso del creare come modo per risolvere problemi personali.
La persona ordinaria al centro di Showing Up, è un’artista di scarso successo e qualche aspirazione, donna dimessa con vita dimessa, una che subisce con scarsa capacità di reazione vive accanto alla sua padrone di casa, anch’essa artista, e costantemente “emergente”, appartenente cioè a quella categoria per la quale emergere non è un movimento ma una situazione fissa. In costante aspirazione di emersione.

Tuttavia mentre la padrona di casa è vitale, ha ospiti e si cura di sé, la protagonista è più solitaria con una famiglia un po’ disastrata dietro e incapace anche di farsi valere quando le viene a mancare l’acqua calda.
Ci saranno un paio di esposizioni e delle opere d’arte kitsch da costruire, nelle quali rivedere forse sé e forse la propria vita, un rapporto forse nuovo da stabilire nel finale e una metafora forse salvifica con un uccello. Un film pieno di forse.

In questo piccolo mercato di piccola arte di piccolo centro non troviamo, magari in scala 1:1000, le dinamiche al cuore dell’industria del cinema o proprio del filmmaking, semmai il modo in cui una vita ordinaria affida ad aspirazioni artistiche molto vaghe le speranze del proprio futuro. In questa donna dimessa in un mondo che con dolcezza o alle volte con sprezzo si approfitta di lei ci dovrebbe essere un oceano di amarezze, solitudini e mancanze (finirà per prendersi cura morbosamente di un piccione ferito), ma in realtà vediamo ben poco. E Michelle Williams proprio non è in palla a sufficienza per compensare e lavorare di movimenti e complessità per aggiungere strati di senso ad una sceneggiatura che pare anelarlo.

Mostrarsi o se vogliamo “esibire se stessi”, come promette il titolo, è una chimera per questa donna invece molto chiusa, che nemmeno nel fare piccole sculture d’argilla sembra mostrare quel che di sé vorrebbe far vedere a tutti (nondimeno quelle opere sono effettivamente il frutto di una personalità remissiva e si vede). Di certo però il film mostra bene Kelly Reichardt e la sua idea di un cinema spartano, con luce naturale (o quantomeno con intenti di naturalismo), digitale a bassa resa e più vicinanza alla realtà e l’odore delle case di legno americane. Con pochi strumenti in mano e una gran voglia di realizzare uno studio su un personaggio, Showing Up si può dire fallisca tutto il fallibile, dalla scrittura, alla recitazione, fino alla messa in scena. E anche un finale americano, incamminato verso l’orizzonte con dolly (o drone) a salire, lascia più dubbi sull’ambiguità di senso del film che stimoli sulle sue intenzioni.

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