Shoshana, la recensione

Shoshana fonde magistralmente documento storico e thriller mozzafiato, andando alle origini del conflitto israelo-palestinese.

Condividi

La recensione di Shoshana, il nuovo film di Michael Winterbottom al cinema dal 27 giugno.

Shoshana è tutto quello che si può volere da un thriller politico che ha l'ambizione di raccontare una pagina di storia complessa. Davanti a un compito da far tremare i polsi - andare alle radici del conflitto israelo-palestinese e delle colpe del colonialismo britannico nella sua nascita - Michael Winterbottom fa il miracolo: un film storico che riesce contemporaneamente a informare, appassionare e giudicare, in pazzesco equilibrio fra vocazione documentaria e capacità di tessere un grande racconto. Diceva David Bordwell che il cinema narrativo fatica a trasmettere la Storia, perché antepone i personaggi (il loro privato, la psicologia) alla dimensione collettiva. Shoshana raccoglie quella sfida e la vince alla grande, dimostrando che si può fare dramma storico senza che il drama distragga dall'immersione in un'epoca.

Shoshana racconta una storia complessa, quella della Palestina degli anni ‘30 occupata dagli Inglesi dove arrivano sempre più Ebrei guidati dal movimento sionista. Iniziano le violenze fra loro e gli Arabi, si formano gruppi più estremisti o moderati, la polizia inglese cerca con metodi spesso brutali di fermare l’escalation. È tanto da digerire ma lo spettatore non si perde mai, perché la narrazione è fluidamente integrata da inserti documentari che usano il voiceover e i cinegiornali d’epoca per contestualizzare l’azione, a sua volta scritta in modo da far esplodere emotivamente il materiale storico. L’effetto è una sintesi rarissima tra fiction e documento, che anziché usare i fatti come pretesto per un racconto d’evasione usa il racconto per renderli comprensibili e significativi anche a un pubblico di non specialisti.

Molto passa per i personaggi, in particolare il trio dei protagonisti: due poliziotti inglesi (Douglas Booth e Harry Melling) assegnati a fermare il terrorismo sionista a Tel Aviv, e Shoshana Borochov (Irina Staršenbaum) sionista moderata che inizia una storia con uno dei due. Winterbottom intende chiaramente illustrare tramite loro (il conflitto fra i poliziotti, l’amore impossibile) aspetti dell’epoca: come la violenza della polizia inglese contribuì a radicalizzare il terrorismo; e come gli elementi sionisti più moderati cedettero alle spinte dell’estremismo e dell’odio religioso. In questo senso la sceneggiatura di Shoshana è un capolavoro di equilibrio, non cadendo nelle trappole opposte di fare dei suoi personaggi vuote allegorie storiche (crediamo sempre alla loro umanità) né di farsi distrarre dalle loro vicende, che sono sempre perfettamente integrate e funzionali al racconto dei fatti.

Poi ci sono regia e montaggio, che su quelle basi costruiscono un thriller dal ritmo implacabile, nella cui sgradevolezza senza eroi rivivono echi di anni ‘70 e dei migliori aggiornamenti moderni di quel cinema (uno su tutti Munich di Spielberg). Winterbottom orchestra l’azione con fredda eleganza, trascina ma non regala catarsi, inserisce nel visivo implicazioni narrative che a loro volta si portano dietro ragionamenti politici. E siccome sappiamo sempre dove ci troviamo, chi spara a chi e perché, la violenza colpisce a livello morale, indigna, delinea la dimensione tragica dei fatti. E la loro ambiguità: a un certo punto Harry Melling (sempre più tra i migliori attori della sua generazione) è protagonista di una scena che sembra uscita direttamente dal Braccio violento della legge, proponendo un enigma morale a cui semplicemente non c’è risposta.

È la sintesi di tutto il film, che pur schierandosi chiaramente contro la violenza e a favore degli elementi moderati non è interessato a identificare nessuna delle parti come “il Male”, preferendo una cronaca equidistante dove emerge la contraddittorietà e gli errori di tutti. Da una parte è una sfortuna che Shoshana sia uscito proprio oggi, quando gli attacchi israeliani a Gaza rendono difficile ricevere un messaggio per cui “esisteva anche un sionismo diverso”. Dall’altra può essere un bene, perché (senza condonare niente) ci aiuta a ricostruire le origini di una spirale di violenza che dura fino a oggi. Chi lo sta etichettando come film sionista è semplicemente incapace di decifrare un testo cinematografico complesso, che rifiuta di offrire soluzioni emotive o scappatoie ideologiche. Vedere il finale per credere.

Continua a leggere su BadTaste