Shorta, la recensione | Venezia 77
Polizia danese nel peggior quartiere possibile, nella peggior giornata. Shorta è il poliziesco che conosciamo dal punto di vista che non conosciamo
La trama ha l’essenziale e stringente potenziale esplosivo del cinema migliore: due poliziotti duri sono di pattuglia in un quartiere più duro di loro, pieno di immigrati di seconda generazione e considerato una polveriera. Loro non sono teneri, si divertono ad esercitare il potere, solo che ad un certo punto la radio li avverte che il caso di un poliziotto che ha quasi ucciso un immigrato, quello che sta occupando i giornali e le bocche di tutti, si è chiuso: l’uomo è morto in ospedale. Il quartiere esplode, loro sono dentro, la polizia li abbandona, nessun collega ha il coraggio di andarli a prendere, dovranno farsi strada da sé fino a fuori con tutta l’area che li cerca per farli fuori.
Tuttavia punto di vista opposto non significa semplicità. Shorta è complicato, i poliziotti sono complicati, non la pensano tutti nella stessa maniera, hanno problemi, dilemmi e questioni etiche, morali e personali irrisolte che emergeranno e saranno risolte con coerenza: con una rissa violentissima in un bagno.
Con queste premesse, una tecnica impeccabile e un grandissimo lavoro sugli attori è davvero davvero difficile non amare Shorta. Difficile non amare la sua schiena così dritta, il suo senso innato per l’azione, il suo amore per i corpi dei personaggi (così massicci e poi pronti ad essere fragilissimi) fino alla sua voglia di ingarbugliare le acque che di solito sono semplici con un gran finale.
A Cannes avevamo visto Les Miserables, questo film è il suo rovescio, una storia paragonabile che però è raccontata da un altro narratore. Cinema muscolare di poche parole e tanti fatti in cui nessuna fazione è compatta e unita, tutte sono composite e sfaccettate, i poliziotti si tradiscono, i teppisti si tradiscono, i poliziotti sono egoisti e anche umani e così gli altri.