Shōgun, la recensione
La versione FX/Hulu di Shogun rilegge il classico sotto una lente universale e moderna, creando un'odissea che intrattiene e fa riflettere
La recensione dei primi otto episodi di Shogun, miniserie tratta dall'omonimo romanzo di James Clavell, in arrivo il 27 febbraio su Disney+. Aggiorneremo la recensione con dopo l'uscita degli ultimi due episodi il 16 e 23 aprile.
A distanza di più di quarant'anni, la Shōgunche oggi FX e Hulu propongono al pubblico non è una mera rivisitazione di quel che fu, ma una sapiente rilettura del classico di Clavell, declinato secondo il gusto contemporaneo senza però snaturarne il senso più vivo e profondo. L'intelligenza dell'operazione risiede principalmente nella scelta di uno sguardo che vada oltre la prospettiva dell'outsider occidentale protagonista, immergendo lo spettatore in una società al bivio, tanto perplessa di fronte alle usanze dell'interlocutore straniero quanto egli lo è di fronte alle loro.
Polifonia
Il cuore pulsante di "Shōgun" batte attraverso la sua narrazione epica, che abbraccia guerra, amore, fede, onore, scontro culturale e intrighi politici, erigendosi come un capolavoro genuino in un'epoca in cui tante grandi produzioni televisive hanno mostrato le loro lacune. Al centro di questo affresco c'è John Blackthorne (Cosmo Jarvis), navigatore inglese approdato sulle coste giapponesi nel cuore di una crisi che potrebbe dividere la nazione. Il suo incontro con Lord Yoshii Toranaga (Hiroyuki Sanada), un maturo eroe di guerra, e Lady Mariko (Anna Sawai), una nobildonna convertitasi al cristianesimo, diventa l'asse portante di una trama intricata e ricca di svolte inattese.
Grazie a un'impensabile alleanza, il freddo metallo delle katane, simbolo dell'onore samurai, si scontra con il fragoroso tuono dei cannoni europei, araldi di un'era di conquiste e cambiamenti. Una metafora visiva della collisione tra due mondi e due codici culturali, fulcro attorno al quale ruota l'intera narrazione di Shōgun, volta anzitutto a esplorare la complessità di un Giappone feudale alla soglia di un'inevitabile trasformazione.
Non solo inglesi
Uno degli aspetti più innovativi del nuovo Shōgun è la decisione di ampliare lo sguardo oltre quello del protagonista designato. Anziché focalizzarsi esclusivamente sull'esperienza di John Blackthorne, straniero in una terra sconosciuta, la reinterpretazione di FX/Hulu si tuffa nelle dinamiche politiche, sociali e culturali del Giappone del XVII secolo, offrendo una narrazione poliedrica che include voci e punti di vista autoctoni. Un approccio che arricchisce la complessità della storia, permettendo una rappresentazione più immersiva del contesto storico in cui la vicenda di Blackthorne è ambientata.
Un'altra importante linea di demarcazione rispetto alla serie del 1980, dove la lingua giapponese era limitata e funzionale alla comprensione del protagonista occidentale, è l'uso estensivo di sottotitoli destinati al pubblico anglofono. La nuova Shōgun ci suggerisce che le barriere linguistiche si superano abbandonando una prospettiva necessariamente eurocentrica, e non è un caso che la serie trovi i suoi punti di forza quando si allontana dal proprio - pur carismatico - protagonista occidentale.
Mosaico di volti
A fronte di una ricostruzione storica minuziosa, esaltata da una qualità visiva che alterna con maestria il calligrafismo dei paesaggi al gore più spinto, il vero trionfo di Shōgun risiede nelle sue interpretazioni. Hiroyuki Sanada incarna Toranaga con una compostezza riflessiva e una complessità emozionale che trascende il suo stoicismo esteriore, mentre Cosmo Jarvis (erano davvero necessarie quelle lenti azzurre?) offre una trasformazione credibile e sfaccettata di Blackthorne, dall'orgoglio iniziale alla maturazione influenzata dai suoi incontri. Un arco avvincente, una parabola di apertura della mente e del cuore a orizzonti sconosciuti e affascinanti.
Plauso, inoltre, alla Mariko della neozelandese Anna Sawai; la sua performance minimale e trattenuta brilla soprattutto nei silenzi, rivelando una gamma emotiva di rara vastità e rendendo il suo personaggio uno dei più memorabili della serie. Stesso dicasi per Moeka Hoshi, impegnata nel dolente ruolo della vedova Fuji: un personaggio secondario che lascia il segno, torreggiando con dignità discreta ma non meno impressionante. Forse, la miglior esemplificazione del modus vivendi di un (animo) nobile nel Giappone seicentesco.
Apoteosi narrativa
In un paesaggio televisivo sovrappopolato di drammi dimenticabili, Shōgun non si limita a raccontare una storia avvincente; sfida le convenzioni narrative, evitando la trappola del "salvatore bianco" e costruendo un percorso drammatico dove la cultura giapponese e i suoi personaggi non sono mai relegati a semplici sfondi o figure esotiche, ma sono pienamente realizzati e integrali alla trama. Il risultato è una saga che non solo intrattiene, ma invita alla riflessione, offrendo un punto di vista acuto su temi universali come l'onore, il potere e il conflitto culturale.
Restiamo dunque incantati dinanzi a quest'odissea di sangue che arricchisce la materia d'origine, fulgida testimonianza della grandezza che può essere raggiunta nella narrazione seriale attraverso un adattamento che celebra i fasti dell'epica con rara sensibilità, offrendo un viaggio esaltante che, una volta intrapreso, sarà difficile terminare a cuor leggero.