Shiva Baby, la recensione

Tutto giocato in interno con le armi del cinema e il lavoro sullo sguardo, Shiva Baby è l'esordio migliore degli ultimi due anni

Critico e giornalista cinematografico


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Shiva Baby, la recensione

Negli ultimi due anni non c’è stato esordio più esordio di Shiva Baby. Emma Seligman mette in piedi un tour de force di ritmo e sceneggiatura con pochissimi mezzi elementari e una capacità da maestro navigato di gestire tempi e spazi. Tutti i limiti di Shiva Baby vengono ribaltati per diventare punti di forza o sono aggirati con tecniche di racconto e capacità di messa in scena. Intere sequenze che potevano essere complicate vengono ridotte all’essenziale e risolte con uno sguardo, uno stacco di montaggio giusto o anche solo la composizione di un’inquadratura. In questo film pieno zeppo di parole, è la regia a parlare più di tutti.

Shiva Baby allunga (ma nemmeno troppo meno di un’ora e venti) un cortometraggio in cui Emma Seligman aveva sperimentato la possibilità di fare il suo primo lungo su questa storia pensata per essere economica e svelta, molto dialogata e giocata su pochi esterni e soprattutto due interni, uno dei quali occupa la gran parte del minutaggio: è l’interno di una casa stipata di gente. Sono tutti lì per uno shiva, la veglia funebre ebraica. Parenti, amici e conoscenti portano del cibo, si riuniscono attorno alla famiglia del defunto e parlano in realtà d’altro. È una riunione non diversa dai nostri natali, solo più grande, occasione per confronto con famiglie più o meno opprimenti che (nel caso di quella del film, molto opprimente), giudicano, puntano il dito e creano pressione specialmente nei confronti di una ragazza.

La protagonista, lo vediamo nella prima scena, ha un amante più grande di lei che un po’ la mantiene un po’ le fa dei regali. Uno sugar daddy, nel gergo americano, di cui lei è la sugar baby. Allo shiva a sorpresa arriva anche lui, poiché amico del padre, con moglie e figlio appena nato. Le solite pressioni sulla protagonista che sta finendo l’università, non ha grandi prospettive di lavoro, non ha una storia sentimentale stabile e viene riempita di frecciatine da una sua ex anch’essa presente allo shiva (e di cui non ha mai detto nulla a nessuno essendo una relazione omosessuale), cresce lungo tutto il film.

Emma Seligman ha chiara la differenza tra il dispositivo di tensione, cioè il complesso di tecniche, espedienti e svolte che tengono lo spettatore sulla punta della sedia, e il senso del film. È sempre attenta a dosare e usare il primo per lavorare sul secondo. Questo inferno di parenti e di dita puntate crea un arco narrativo, la passione e la tempesta attraverso cui deve passare la sugar baby di questo shiva in cerca di una purificazione. E un finale ariosissimo che si svolge nello stretto di un’auto, non fa che aumentare l’idea di aver passato poco più di un’ora in quasi tempo reale nella vita di una ragazza il cui stile di vita e le cui scelte sono sempre un problema.

Come nei film migliori è tutta una questione di sguardo, in questo caso quello degli altri su una postadolescente interpretata con sciatta disperazione da Rachel Sennott. Una eccezionale Polly Draper nei panni della madre è in questo perfetta. I mutamenti del modo in cui guarda, si rivolge e si relaziona con la figlia lungo gli eventi, sono la maniera attraverso la quale noi comprendiamo gli stadi che attraversa, i rapporti che stringe con i parenti e soprattutto le spinte e costrizioni cui è sottoposta. Lo sguardo degli altri è la narrazione in sé, il suo andamento e la sua forza, messo in coppia alla grande con la colonna audio che tra sound design e colonna sonora lavora sul ritmo.

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