Shirley, una donna alla Casa Bianca, la recensione

La storia di Shirley Chisholm, la prima donna afroamericana eletta al congresso, e di cosa abbia richiesto cambiare una mentalità

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Shirley, una donna alla Casa Bianca, il film di John Ridley disponibile su Netflix dal 22 marzo

I meme che prendono in giro Netflix per il suo eccesso di inclusività e per la tendenza a posizionarsi dalla parte delle cause più giuste con una certa sbrigativa goffaggine sbagliano, perché Netflix fa molto altro. Certo anche Netflix alle volte sembra mettercela tutta per farsi prendere in giro. Un film come Shirley è più o meno quello che si potrebbe immaginare, la celebrazione di un personaggio afroamericano in forma agiografica e con un’impresa (cioè un film dedicato) forse superiore ai meriti effettivi. Soprattutto è un film con nessuna personalità o cultura afroamericana, ma la blanda riproposizione delle più pigre operazioni bianche, solo con tutti personaggi di un altro colore.

Shirley Chisholm è stata un deputato del congresso, la prima donna afroamericana ad essere eletta, e il film racconta uno snodo importante della sua vita politica, uno solo, finito con un nulla di fatto, come mezzo per raccontare sia il clima dell’epoca che il carattere indomito del personaggio, che ancora le altre persone (con dovizia di cartelli finali con i dettagli di ognuno) che l’hanno aiutata e sostenuta. Tutti di immacolata virtù e rassicurante sicurezza nei propri ideali e in un’onestà intellettuale che sfiora la magnificenza.

Rustin, One Night in Miami, Selma, Ma Rainey’s Black Bottom, Judas & The Black Messiah, Il diritto di contare e molti altri film stanno creando un grande filone di cinema afromericano che in pochi anni sta allargando il pantheon delle figure cardine della conquista dei diritti afroamericani, mescolando grandi politici, politici non molto noti, figure nell’ombra, attivisti, figure controverse e persone comuni che hanno giocato un ruolo. Questo è il quadro in cui si inserisce Shirley, la rinarrazione della storia del novecento degli Stati Uniti attraverso nuovi e vecchi personaggi afroamericani. E se un controracconto degli Stati Uniti che dia più risalto ai personaggi afroamericani che hanno costruito il paese è più che benvenuto, molto meno lo sono film come Shirley, in cui l’agiografia prende la mano e tutto suona falso a partire dai costumi per finire con l’interpretazione di Regina King, macchiettistica come il resto del film.

Quello che questi film vogliono dire è nobile, la maniera in cui lo dicono no, è manipolatoria, perché trasformano la storia e la politica in uno scontro manicheo di virtù cardinali da che, lo sappiamo, è il regno dell’ambiguità. Per creare nuovi miti scrivono dei santini ed erigono monumenti, chiedono di non pensare ma accettare una visione già confezionata e semplicistica. Non bisogna mettere in discussione niente se non l’egemonia bianca sulla politica. Shirley racconta con un impegno blando quanto sia duro cambiare un paese ma lo fa sembrare facile, motivato da buoni discorsi e dal candore d’animo. Mistificazione allo stato puro. È così dozzinale la maniera in cui questo film di John Ridley vuole rassicurare e massaggiare il suo pubblico, assicurandogli che la politica è un luogo giusto e che nonostante possano esserci delusioni, dentro il cuore di tutti, anche dei razzisti, c’è una persona migliore che lotta per uscire, che ci sarebbe da offendersi.

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