She's Gotta Have It (prima stagione), la recensione
La nostra recensione di She's Gotta Have It, la serie tv di Spike Lee disponibile su Netflix
La sua prima serie televisiva (comprata da Netflix) è il remake in versione seriale del suo primo omonimo film, quello che in italiano era stato tradotto Lola Darling. La serie lo ammette immediatamente, con una sigla (che come l’inizio di quel film è fatta di scene e dettagli del paesaggio di Brooklyn e addirittura ne incorpora alcuni in bianco e nero proprio provenienti dal film) e una prima scena identiche a quelle di Lola Darling. La protagonista, Nola (era Lola solo nell’adattamento italiano), parla in camera come faranno spesso un po’ tutti i personaggi, dichiarando il proprio statuto di donna libera, che non crede nelle etichette, non si sente un freak come dicono di lei. Lei è Nola ed è più di quel che la gente pensa di lei.
Nel tornare al suo primo soggetto Spike Lee recupera la libertà di un ragazzinoNel tornare al suo primo soggetto Spike Lee recupera la libertà di un ragazzino, cerca quella maniera molto sconnessa di montare e usare i riferimenti culturali del suo mondo nelle storie che racconta. Quel che dà personalità a She’s Gotta Have It infatti non è, come capita spesso nelle serie, la caratura dei personaggi, la loro distanza dall’usuale e la maniera in cui non somigliando ai soliti personaggi riescono a piegare ambienti e generi che conosciamo fino ad estensioni sconosciute, ma è proprio la fattura. She’s Gotta Have It è una serie in cui accade pochissimo, in cui gli eventi sono gocce in episodi che amano la digressione e che si caratterizzano per le musiche, le parole del rap che compaiono in sovrimpressione, le copertine degli album relative di ogni canzone che compaiono dopo che è stata usata.
È il territorio migliore in cui da sempre si misura Spike Lee, quello delle contraddizioni che si scontrano tra di loro tramite le perone che le incarnano. Desideri diversi, esigenze diverse, persone e razze diverse che devono convivere e trovare un’armonia.
She’s Gotta Have It però è anche un modo per Spike Lee per raccontare le mutazioni di Brooklyn e in particolare della zona di Fort Greene. È evidente da quante immagini, quanti luoghi diversi, quanti dialoghi sono impiegati per parlare della zona, quanto i personaggi esistano o non esistano in relazione ad essa (chi è il tipico abitante di lì, chi si è trasferito da poco, chi è il tipico nuovo proprietario di casa frutto della gentrificazione…). Dalle strade ai palazzi e ai grattacieli, fino ai camerini dei locali, la serie esplora un po’ tutto di Brooklyn, le situazioni, le persone e i mestieri. Chiaramente ad essere in ballo è l’identità del territorio, di quella che era storicamente una zona di neri e ormai non lo è più. Anch’essa, come la società, è in continua trasformazione e come per ogni cosa nella produzione di Spike Lee, di nuovo, quest’identità è frutto di una negoziazione tra le varie razze che condividono per forza i medesimi metri quadrati.
Ma sono solo suggestioni che She’s Gotta Have It, coglie poco e malvolentieri, preferendo esporle e basta. Nola si chiede “Devo forse rinunciare ad una parte di me per essere felice?”, e lo chiede anche agli spettatori guardando in camera in un momento di grande sincerità che rimarrà abbastanza isolato. La presa di coscienza in 10 puntate è lunga e annacquata, è esageratamente tirata per le lunghe e fieramente ideologica. Spike Lee vuole dimostrare e dichiarara a gran voce una tesi, non esplorare un territorio o dei personaggi, non raccontare un intreccio o delle situazioni, ma far vedere quanto sia ingiusto che una donna libera sia messa in crisi per la sua libertà. Per fare questo è disposto a tutto.
In quest’esaltazione della figura femminile nel quale qualsiasi uomo si rivela, in un modo o nell’altro, abbastanza scemo e ogni donna invece è toccata dal beneficio della complessità, si trovano storie al limite del grottesco come quello della danzatrice che ritiene di non avere abbastanza sedere e si fa iniettare del silicone a basso costo per aumentarlo. Vittima della società che la vuole in una certa maniera farà di tutto, pur con pochi soldi, per adeguarsi all’immagine che viene richiesta. A poter fare la morale a Nola, a poterla criticare senza subire la sua superiorità allora è solo un’altra donna, la quarta storia sessuale imbastita: quella lesbica (nel film era proposta ma non concretizzata, qui invece sì, uno dei pochi cambiamenti di costume evidenti). La morale, dichiarata, sarà che con gli uomini ci si può divertire ma con le donne bisogna fare seriamente.
Tuttavia Spike Lee non è Almodovar, cioè non è un cineasta che fa del suo parteggiare per le donne la pietra angolare di una lettura della società, di un modo di fare film e di intendere i corpi, è solo un cineasta che propugna un’idea senza avere una storia a supportarlo fino alla fine.
Purtroppo mentre le serie in genere tendono a prendere fiato, migliorare e distendersi con il procedere degli episodi, She’s Gotta Have It dopo il terzo episodio esaurisce la parte di trama del film e ne imbastisce un’altra, relativa alla carriera di artista di Nola e alla sua capacità di mantenersi, molto meno interessante. Perché mentre la sigla con il suo collage di Brooklyn ieri ed oggi sembra promettere una serie sul mutamento urbano, sulla società in evoluzione e il senso dei luoghi che viviamo, le puntate sono in realtà ben più autoreferenziali, piegate su idee e ideali di Spike Lee senza mai spiegarli o metterli in questione ma cavalcandoli come se fossero già condivisi da tutto il pubblico, beandosi della comunanza di idee.