She's Gotta Have It, seconda stagione: la recensione
Proseguendo perfettamente nel solco della prima stagione, She's Gotta Have It approda da nessuna parte, rivelando la pochezza dei propri intenti
She’s Gotta Have It, stagione 2, è di nuovo tutta firmata da Spike Lee e continua il discorso della prima stagione con maggiore episodicità, andando oltre la trama raccontata dal film del 1986 (Lola Darling). Nola non giostra più tre uomini ma cerca di rattoppare la sua storia omosessuale mentre la sua carriera di artista sembra decollare. Deve confrontarsi con il mercato, i lavori su commissione e quello che gli altri pensano di lei e del suo lavoro. È Nola Darling contro il sistema, Nola Darling che cerca serenità. Ci sarà un’intera puntata su un festival di quartiere nel nome di Prince, un altro paio in trasferta a Porto Rico (come si faceva una volta nei vecchi telefilm quando i protagonisti facevano il viaggio solitamente in un doppio episodio).
E, di nuovo, la cosa potrebbe anche essere interessante se fosse piena di conflitti. Ma i conflitti di Nola oscillano tra il ridicolo e il puerile, sono contrapposizioni molto basilari a cui lei risponde con una specie di assolutismo adolescenziale evidentemente destinato a fallire. Nola Darling ci viene presentata come la classica artista che si percepisce come parte del popolo e che sostiene di parlare per tutti quelli che non hanno una voce. Peccato che il film ci creda e non riconosca l’intrinseca assurdità della cosa.
Non è interessante Nola, con le sue piccole bagatelle, e non lo è l’umanità delle piccole storie che le girano intorno (dall’amica con il sedere rifatto all’ex fidanzato Mars), tutto sempre molto slegato da un intreccio centrale labile. Spike Lee parla con le immagini, come fa nei suoi film, ma dimentica la scrittura. Tutto questo buon ritmo e queste idee visive sono svilite da dialoghi ammorbanti e personaggi elementari.
E anche l’intento della serie di essere una chiara dichiarazione d’amore al quartiere di Nola, Fort Greene (Brooklyn), quello contro la cui gentrificazione tutti si battono, sineddoche della New York autentica, non ha anima, non ha personalità né supera ma lo stadio della cartolina. Sempre di sfondo, sempre presente, ma non capiamo nulla di cosa lo caratterizzi, di che anima abbia che vada preservata.
She’s Gotta Have It alla seconda stagione non ripara i problemi della prima, anzi ne aggiunge di nuovi e a tratti sembra assorbire uno spiritualismo pagano che presenta come fossimo in un film di Malick, come un aspetto pervasivo sul quale meditare, associando ad esso il culto dei popoli nativi. Non c’è onestà e non c’è verità artistica al di fuori del recinto delle radici per Spike Lee ma mai l’ha raccontato in maniera convincente di questa volta, con un fastidioso specchietto del femminismo nero (la storia del body shaming che tira in ballo il corpo della donna e i problemi della maniera in cui la società ci specula, ci gira intorno e lo rappresenta, è così fugace da sembrare davvero pretestuoso).
Con diverse ore a disposizione She’s Gotta Have It non riesce ad andare a fondo in niente, lavora di fino per tenersi sempre in superficie, per adeguarsi allo sguardo di Nola che risolve tutto con un quadro. Così mentre il quartiere si difende dai bianchi alto-borghesi, mentre in Porto Rico Nola cerca ispirazione o partecipa ad un camp per artisti in cui dimostrarsi più integerrima degli altri, noi rimaniamo a guardare la storia di una donna in cui nulla sembra davvero creare un intreccio e nessuna idea va più in là della presa di posizione aprioristica. Una serie di protesta, una serie che sa benissimo da che parte delle sue barricate stare ma che non riesce mai a (e forse nemmeno vuole) spiegare le proprie ragioni.