Sherlock: il commento alla seconda stagione

Con maggior successo ma minor coerenza anche questa seconda è finita. Irene Adler e Jim Moriarty si confermano personaggi difficilissimi da gestire...

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
In una manciata di minuti, come al solito, è volata via anche la seconda stagione di Sherlock, miniserie della BBC che con solo 6 episodi e 2 stagioni è diventata uno dei principali punti di riferimento per la valutazione dell’audience in Inghilterra. Da noi è invece da poco terminata la messa in onda su Italia 1 della prima stagione, senza troppo entusiasmo.

Rispetto ai primi 3 episodi, questi secondi 3 hanno dato subito un punto di vista diverso. Fin dal primo A scandal in Belgravia il tono si è fatto più scherzoso e i riferimenti ai libri più labili.

Si è inoltre ripetuto quello che è sempre capitato nei vari adattamenti, cioè che i personaggi di Irene Adler e Moriarty sono stati allargati e gonfiati molto rispetto alla loro origine letteraria. Entrambi compaiono in un solo racconto (a stento se ne trovano altri riferimenti nelle opere successive) e non hanno la statura che gli è stata conferita in seguito. Addirittura Moriarty, considerato la vera nemesi di Holmes, è un personaggio creato con la sola funzione di dare una morte dignitosa al detective in un momento in cui Conan Doyle voleva smettere di scrivere. Un genio criminale che Holmes ritiene suo degno avversario ma che non mostra mai in effetti doti simili a quelle del detective.

Nei film, nelle serie televisive e nell’animazione derivata invece Moriarty diventa lo specchio di Holmes e Irene Adler una figura ambigua a metà tra il bene e il male, più simile a quello che Monkey Punch disegnerà con la Fujiko di Lupin III che all’originale The Woman.

Accade così anche in questo Sherlock, Irene Adler diventa la pietra angolare della sottotrama della serie, ovvero il sentimentalismo latente e inespresso del protagonista, mentre Moriarty è già al centro del cliffhanger finale della prima stagione e in The Hounds of Bakerville, il secondo episodio della seconda stagione, in cui Mark Gatiss e Steve Moffat trovano il modo di inserirloin una visione/incubo di Sherlock.
Il massimo però avviene nell’ultimo episodio (almeno fino all’inizio dell’annunciata terza stagione) che mette in scena lo scontro tra i due. Questo prende sostanzialmente il finale di The Final Problem (l’unico racconto con Moriarty) e orchestra una trama con piccoli riferimenti ad altri libri (particolari poco influenti) o a lavori paralleli (la visita di Moriarty al 221 di Baker Street è presa da uno dei film sul detective con Basil Rathbone).

Tutto il grande fascino di questo bellissimo Sherlock, sta nel gioco di scrittura e interpretazione. Mentre Benedict Cumberbatch e Martin Freeman si occupano di dare corpo, volto e credibilità alla modernità dell’ambientazione, la scrittura ricalca con grande fedeltà (ma straordinario senso dell’adattamento e della variazione sul tema) le storie classiche.

Da questa divisione dei ruoli scaturisce il rinnovato interesse verso storie e personaggi sentiti più volte (anche solo il modo in cui si gioca sottilmente con la praticamente dichiarata omosessualità di Holmes e le dicerie della gente sulla liaison tra i due è da impazzire), perchè se Holmes diventa metropolitano allora deve anche perdere quell’aura mitica ed eroica ottocentesca a favore di una più moderna, meno enfatica o epica e più ordinaria. Insomma se usa il cellulare, prende il taxi e guarda la televisione non potrà anche essere troppo distante dall’uomo comune.

La seconda stagione invece manca di fedeltà in scrittura e sembra sacrificare qualcosa delle storie originali sull’altare di dinamiche narrative più contemporanee. Emblema ne è proprio l’episodio conclusivo, The Reichenbach Falls (il luogo dove in originale Holmes e Moriarty duellano alla morte e in questo caso un dipinto della suddeta cascata al centro di un caso all’inizio), in cui almeno tre quarti è inventato di sana pianta o preso dagli adattamenti (anche il tentativo di furto dei gioielli della corona, che fa così tanto metà novecento, viene dai film con Basil Rathbone). Il risultato è un eccesso di deduzioni inumane, di “avevo previsto tutto” e di eroismo in una serie che invece era riuscita a rendere davvero metropolitano Sherlock Holmes.

Continua a leggere su BadTaste