Sherlock 4x03, "Il Problema Finale" [season finale]: la recensione

L'ultimo episodio della quarta stagione di Sherlock chiude i conti col passato del protagonista e mette l'accento sul tema della famiglia

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Spoiler Alert
Oggi, siamo soldati. Questo ripetono Sherlock Holmes e John Watson per farsi coraggio - e fare coraggio allo scosso pubblico - in Il Problema Finale (The Final Problem), episodio conclusivo della quarta - e forse ultima - stagione di Sherlock. Eppure, nemmeno un proiettile verrà sparato dalle mani dei due sodali nel corso di questa puntata imperfetta e ambiziosa, pregna di una gravità che colma, con un collante emotivo degno dei migliori episodi della serie, le molte crepe narrative che rendono spesso difficile l'incastro degli ingranaggi della trama. È questo il finale che il pubblico merita, dopo sette anni di devota attesa? Se dovessimo attenerci con rigore ai dettami della verosimiglianza, Il Problema Finale, ispirato molto liberamente al racconto Il Rituale dei Musgrave (1894), si staglierebbe immediatamente come una cocente delusione. L'intera vicenda di Eurus, astutamente pervasa di un'aura di invincibilità, ha numerose falle al proprio interno, e troppe cose ancora rimangono senza spiegazione - non ultimo, il ruolo che la donna ha ricoperto all'interno del caso Culverton Smith, oltre all'improbabile e incontrastata presa di potere nella struttura di Sherrinford. Inoltre, l'idea che le macchinazioni di Moriarty - riportato splendidamente in vita in un flashback dal sempre ottimo Andrew Scott - celassero, almeno in parte, il tocco diabolico della nuova arrivata Eurus, fa perdere forza a un villain che, a cinque anni dalla sua "morte" televisiva, deteneva ancora un potere perturbante pressoché assoluto nell'immaginario del pubblico.

Tuttavia, sarebbe controproducente giudicare un episodio come Il Problema Finale solo in rapporto alla credibilità dell'intreccio investigativo, poiché da subito il focus della puntata è connotato come un gioco di sentimenti che vede nella famiglia il proprio tema portante. Già i precedenti finali di stagione - Il Grande GiocoLe Cascate di ReichenbachL'Ultimo Giuramento - avevano portato avanti un fil rouge che vedeva Sherlock Holmes fronteggiare il proprio più grande, benché represso, timore: la perdita delle persone a lui care, in particolare l'amatissimo John Watson, leale compagno d'avventure e luce nelle tenebre di una solitudine ricercata troppo ostinatamente per non celare una ferita mai rimarginata. Il Problema Finale non fa eccezione, e anzi si diletta in un esercizio quasi virtuosistico di contorsioni etiche ed emotive, complice la machiavellica follia di Eurus, che pone Sherlock al centro di una serie di prove - morali e sentimentali, più che logiche - che diviene aberrante e bieca deformazione dei giochi che le erano stati preclusi da piccola. Eccola, quindi, tentare di creare nel fratello il deserto interiore in cui ella si aggira da anni, impaurita come una bambina a bordo di un aereo senza pilota, nella prolungata indifferenza di adulti che non riescono a darle attenzione; eccola provocare la morte di cinque persone dinnanzi agli occhi sconvolti di Sherlock, di John e di Mycroft, e straziare il cuore di Molly con un'ennesima bugia, usando i sentimenti altrui come invisibili, fatali giocattoli a propria disposizione.

Tutto quello che vediamo in Il Problema Finale è, in sostanza, una declinazione di infanzie straziate: quella di Eurus segnata dall'isolamento e dall'incomprensione, quella di Mycroft caratterizzata dal peso di bugie troppo gravose, quella di Sherlock bloccata da una tragedia immane, fonte primaria di ogni sua sociopatia adulta. La morte di Victor Trevor - personaggio presente nella saga di Doyle, amico d'infanzia di Sherlock nel racconto Il Mistero della Gloria Scott (1894) - adombrata fin dalla scorsa stagione, seppur nella forma traslata dell'inesistente cane di famiglia, diviene origin story della personalità del protagonista, del suo disagio, della sua ostinata preservazione dell'incolumità di John, fosse anche a scapito di quella del suo stesso fratello - eccezionale, a questo riguardo, l'interpretazione di Mark Gatiss in questo episodio, oltre alle impeccabili conferme di Cumberbatch e Freeman. Va dato atto a Il Problema Finale di averci offerto un quadro ben più approfondito della personalità di Mycroft e della sua disperata salvaguardia della salute mentale di Sherlock. La responsabilità di un castello di bugie pesa da anni sulle spalle del maggiore dei fratelli Holmes, e il parallelo con Lady Bracknell non è casuale, laddove il personaggio wildiano deteneva un segreto relativo proprio a un bambino scomparso, in chiaro riferimento all'allontanamento e alla reclusione di Eurus, organizzata e portata avanti dapprima dallo zio Rudy e, in seguito, da Mycroft stesso.

"Are you okay?" Quella che è forse la frase più semplice di Il Problema Finale diviene, in qualche modo, anche la più emblematica dell'episodio, nella sua accorata ripetizione. In quelle tre parole, che Sherlock e John si scambiano in un rimbalzo che costella tutta la puntata, leggiamo un'affezione sentimentale invariata e, per così dire, cementata dal dolore vissuto e con-vissuto in questi sette anni. Inevitabile il richiamo al "no, it's not okay" della scorsa puntata, in cui John crollava finalmente in lacrime, avvolto dal timido e goffo abbraccio dell'amico. La circospezione sentimentale assurge, in Il Problema Finale, ad autentica dichiarazione d'indispensabilità reciproca. Se Le Cascate di Reichenbach rappresenta, tuttora, l'acme sentimentale più tragica che la serie BBC abbia mai toccato, Il Problema Finale ne diviene, a cinque anni di distanza, la controparte più rassicurante, dove gli affetti sono incrollabili anche se mai esplicitati verbalmente, ma scolpiti nel cuore del pubblico in un finale - mirabilmente girato, come del resto l'intero episodio - che ha un sapore nuovo.

Il cerchio sembrerebbe chiudersi laddove era iniziato, con Holmes e Watson uniti contro il crimine, ma la sequenza finale, con la camera che gira su se stessa a inquadrare non solo i nuovi casi - spicca, tra di essi, l'iconico alfabeto antropomorfo de L'Avventura degli Uomini Danzanti - ma soprattutto la conquista definitiva dello status di famiglia da parte dei due protagonisti. Allargata, se vogliamo, allietata dalle visite di Greg Lestrade finalmente ricordato col suo nome, di Molly, di Mycroft, ma bizzarramente funzionale. È questa la crescita che ha caratterizzato John e soprattutto Sherlock, attraverso i traumi bellici, la dipendenza dalla droga, la sociopatia e i disturbi psicosomatici, per approdare a una convivenza che, tralasciando volontariamente qualsiasi connotazione sessuale, delinea un ritratto ben chiaro, benedetto dalla defunta Mary e irradiato dalla presenza della piccola Rosie. Il plausibilmente illibato Sherlock ha perso gradualmente la propria verginità emotiva, aprendosi al mondo attraverso un lento processo di crescita, accompagnato passo dopo passo da un'anima affine e coadiuvato da una cerchia di personaggi che, al di fuori del vincolo parentale, costituiscono il nucleo pulsante del cuore del detective.

È ancora presto per definire Il Problema Finale la chiusura dell'intera Sherlock, ma è inevitabile notare l'atmosfera di compiutezza che lo distingue da tutti i finali di stagione finora proposti dalla serie BBC. Se, da un lato, l'episodio suggella l'evoluzione di un personaggio che è andato umanizzandosi sempre più, riuscendo a risolvere sentimentalmente il proprio problema finale e ad elaborare una perdita sepolta nei meandri di una memoria ricalibrata, dall'altro ci porta a vedere l'intera storia della relazione Holmes-Watson in un'ottica diversa e più profonda: ogni passo compiuto da Sherlock, da quando ha incontrato il silenzioso reduce claudicante, è stato fatto per colmare un vuoto che egli stesso avvertiva ma che, a causa delle menzogne benevole di Mycroft e dello zio, non era mai stato in grado di processare. Finalmente libero dal peso della bugia, Sherlock è divenuto il good man che Lestrade profetizzò in Uno Studio in Rosa, quando l'amicizia con John era ancora agli albori ma già portava i segni di un legame benefico e catartico. La routine domestico-lavorativa di Holmes e Watson è restaurata, seguendo la non troppo velata metafora del ripristino dell'iconico appartamento al 221B di Baker Street, e lo scatto fulmineo dei due fuori da Rathbone Place - in chiaro tributo al celeberrimo Basil che vestì con ineguagliato successo i panni del consulente detective - promette altre esaltanti avventure, siano esse materia televisiva o rimangano semplicemente spunto d'immaginazione per il pubblico. Se l'ultima immagine che avremo di loro sarà quella di due giovanili, energici uomini uniti in corsa verso il prossimo caso, possiamo dirci soddisfatti della chiusura di questo cerchio memorabile.

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