Sherlock 3x03, "His Last Vow": la recensione

Nella chiusura della terza stagione di Sherlock, Moffat recupera il canone di Conan Doyle e, grazie ad esso, confeziona una puntata dal ritmo più incalzante e cupo dei due precedenti episodi. Ma...

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"The one fixed point in a changing age". But things can't stay the same forever...

Così twittava ieri Mark Gatiss, a poche ore dalla messa in onda sulla BBC One di His Last Vow, ultimo episodio della terza stagione di Sherlock. Una frase desunta da Conan Doyle e, precisamente, da His Last Bow, cui la puntata finale fa riferimento (nel titolo più che nel soggetto). Un punto fisso, quello che il leale John Watson (Martin Freeman) rappresenta per Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch), e abbiamo avuto modo di constatarlo in tutti gli episodi finora trasmessi. Ma le cose non possono restare le stesse per sempre, lascia presagire l'ermetico Gatiss, creatore della serie assieme a Steven Moffat. E quella che, nelle intenzioni dell'autore inglese, era certo una semplice allusione al personaggio del fido dottore, finisce per diventare la frase da incidere sulla pietra tombale - o sulla copertina, se preferite - di questa stagione.

His Last Vow (sceneggiato da Moffat) inanella una serie di gran belle sorprese, sia per i fan della saga letteraria di Sir Arthur Conan Doyle che per il pubblico di appassionati televisivi che, semplicemente, si sono innamorati di questa superba serie. Elencarle tutte sarebbe lungo e rovinerebbe uno dei piaceri più gustosi concessi dalla bizzarra terza stagione. Possiamo citare, tra tutte, l'introduzione di un nuovo personaggio che entrerà indubbiamente a far parte del cast fisso, Bill Wiggins, ragazzo sbandato ma dalle caratteristiche intellettive molto simili a quelle di Sherlock. Viene recuperato anche un imbarazzante corteggiamento di comodo che è fonte, qualora non ve ne fossero state abbastanza, di nuove risate da parte del pubblico più bramoso di comedy.

Tante piccole perle che fanno rilucere la puntata, e che recano però tutte il sigillo inconfondibile di Conan Doyle. Fa riflettere, in quest'ottica, il fatto che l'episodio risulti più debole proprio quando si allontana dalla materia letteraria d'origine: ecco dunque lo script scadere in scivoloni sentimentali improbabili e melensi, con interrogativi lasciati volontariamente irrisolti in nome di non si sa bene cosa - va bene mantenere un po' di mistero, ma ci sono ombre che non possono non corrompere qualsivoglia rapporto affettivo. Il tutto aggravato da un'ingombrante presenza (ancora invisibile) che è talmente in antitesi con i presupposti della storia di Holmes e Watson da profilare una quarta stagione che odora tanto di fanfiction.

Dal punto di vista della regia, gli spunti offerti da His Last Vow sono molteplici e interessanti, volti a catapultare il pubblico nel bel mezzo di un viaggio labirintico alla scoperta di questo o quel dettaglio della psicologia di Sherlock. Gli sparuti flash dal passato dell'investigatore si alternano alla sostanza più solida del racconto, perché ciò che conta in una serie come Sherlock è il qui e ora. Qui e ora che, nell'episodio, si articola in maniera accattivante e fortemente ritmata rispetto sia al compiaciuto The Empty Hearse che al buffo The Sign of Three. Per i primi due terzi, His Last Vow mantiene in toto la valanga di promesse lanciate in nome di un riscatto doveroso, dopo due puntate di sit-com (o, al più, di commedia romantica) tinta di giallo. Ci sono andati vicino tanto così, Moffat e Gatiss, dal creare l'ingranaggio investigativo perfetto, e la distanza dal raggiungimento dell'obiettivo è abbastanza irrisoria da aggiudicare un'indubbia promozione alla puntata.

Sherlock

Il villain di Lars Mikkelsen è al contempo magnetico e ripugnante, il giallo che si snoda attorno a lui è una calamita per lo spettatore. L'inizio della puntata è folgorante (ancora una volta, ringraziamo Sir Arthur Conan Doyle per aver fornito materia prima sopraffina), e la storia prende il via con slancio in una corsa mozzafiato, salvo poi fermarsi di colpo sul più bello, incartandosi su se stessa e portando a una risoluzione del caso quantomai spiccia. Tanto spiccia da far sospettare che Moffat dovesse finire in breve lo script per correre a scolare la pasta. Ma, c'è un gigantesco ma: L'Avventura di Charles Augustus Milverton, a cui l'episodio è in gran parte ispirato, vedeva l'indagine concludersi in maniera ugualmente brusca, e la fedeltà alla fonte letteraria risulta quindi intatta. Ma non sarebbe sufficiente a giustificare il troncamento dell'investigazione: se a un'occhiata superficiale il caso appare poco emblematico per meritare di concludere una stagione, il violento gesto risolutivo di Sherlock, per quanto telefonato, chiude simbolicamente un cerchio aperto quattro anni fa da John Watson in A Study in Pink, primo memorabile episodio di questa straordinaria serie.

Certo, a sentire i dialoghi tra John e Mary viene da chiedersi dove sia finito tutto il coraggio di Moffat e Gatiss, fatto annusare come una pietanza prelibata grazie a una sequela di indizi sapientemente disseminati (e ci possiamo compiacere di averli colti davvero tutti) e poi sfilata senza pietà da sotto il naso e rimpiazzata con una stucchevole melassa da soap opera. Ma forse è presto per accusare gli sceneggiatori di aver vigliaccamente ritirato i remi in barca, e un'evoluzione non blasfema della vicenda Mary Morstan si può ancora auspicare per la prossima stagione.
Ma se lo spettatore si annoierà, imbrigliato nelle maglie domestiche di Mr e Mrs Watson, in un quadretto che è sovversivo solo nelle intenzioni, non potrà non riconoscere il fine ultimo dell'intera stagione, pienamente andato a segno: chiarire una volta per tutte la priorità assoluta nella vita di Sherlock Holmes.

Al di là di qualunque scetticismo o di qualsiasi sfumatura pruriginosa affibbiata dai fan più focosi, è chiaro come il sole che la stella polare della vita di Sherlock Holmes, il suo fixed point, ha nome e cognome: John Hamish Watson. L'uomo che gli ha salvato la vita a pochi giorni dal loro primo incontro, l'uomo che gli ha perdonato di essere scomparso per due anni dopo un finto suicidio, l'uomo che lo tira fuori dall'abbraccio della morte ancora una volta in questo episodio, e senza neppure saperlo. Sherlock deve vivere, perché deve proteggere John. L'ha giurato, questo è (in parte) his last vow, il suo ultimo voto. E su questo voto si staglia la più limpida dichiarazione sentimentale che possa esistere, più alta dell'amore perché, semplicemente, amore non è. Sherlock non può innamorarsi, ne abbiamo avuto prova. Ma Sherlock ama John, lo ama dell'amicizia più pura e salda del mondo, al punto di sacrificare tutto per lui. Anche laddove, ormai lo sa bene, i sentimenti di John sono innegabilmente diversi dai suoi. Anche laddove sa di non poter anelare a essere la prima priorità del suo migliore amico, non più. E nella sobrietà del loro congedo, in una stretta di mano composta ma sentita, emerge il paradosso del legame che unisce i due uomini e, al contempo, il gap interiore che ormai li separa senza (visibile) rimedio.

Sherlock

Di fronte a un'amicizia così incondizionata, a un cuore così schietto e devoto, si finisce per sperare che le gioie e i dolori familiari di John Watson restino materia di uno spin-off a parte, che prosegua autonomamente senza intaccare la storia personale di Sherlock; perché questa zavorra in stile Mulino Bianco davvero non rende onore alla solitaria, amara statura del personaggio Holmes. Sherlock, sia come serie che come uomo, forse merita qualcosa di meglio, e dispiace sinceramente immaginarlo come numero due (o, peggio, tre) nella scala di valori di un uomo a cui ha dato tutto. E anche su questo, Conan Doyle avrebbe da impartire la sua lezione. Chi pensa che His Last Vow esca dal tracciato delle precedenti due puntate verrà smentito: non è che l'ultima pennellata di un ritratto umano che ha preso il sopravvento sui casi da risolvere e sugli intrighi da svelare. Come ha dichiarato Moffat stesso, Sherlock non è una detective story, ma la storia di un detective. Un modo di rispondere alle polemiche suscitate dalla terza stagione, ma anche una dichiarazione d'intenti che collima col sentimento generale lasciato da quest'ultima puntata.

Il pubblico avrà tempo per rimuginare su quanto ha visto. Il mondo applaude, decretando il trionfo (almeno numerico) di Sherlock. Chi sta scrivendo queste righe dovrà darsi pace, e forse lo sta già facendo. Ma risulta sintomatico il fatto che, al termine di una triade di puntate che hanno aggiunto troppa carne insipida ad una grigliata prima perfettamente bilanciata, il balsamo più fresco per la sottoscritta è derivato, ancora una volta, dal ritorno (nelle ultimissime scene) di un volto amico - per così dire - mutuato dalle precedenti stagioni.

E per quanto anch'esso sollevi parecchi interrogativi che sfociano prepotentemente nel nonsense, non si può non ripensare alla conclusione di The Great Game o di The Reichenbach Fall: due cliffhanger di potenza inaudita. In particolare il primo, che non si preoccupò di concedere al pubblico il benché minimo contentino, lasciandolo col fiato sospeso per due anni. Ora come ora, ciò che mancherà al pubblico già in iato per la quarta stagione sarà il musetto rettile del geniale Cumberbatch, o la tenera, reiterata fedeltà dell'altrettanto brillante Freeman, ma non certo il brivido, a dispetto di un finale che ha lasciato il pubblico con gli stessi interrogativi che aveva al termine di The Reichenbach Fall (più un discreto numero di inesplicabili dubbi nuovi di zecca). Stessi interrogativi, sì, ma non stessa tensione. Things can't stay the same forever: la leggerezza perfetta, il minuzioso intreccio investigativo delle prime due stagioni sembrano, nel buio della camera, a monitor ormai spento, davvero acqua passata. Ma le correnti esistono, anche in ambito televisivo. E chissà che l'antico, vivace smalto non torni presto a fluire sotto l'ormai lievemente sovraffollato ponte di Sherlock.

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