Sherlock 3×02: The Sign of Three, la recensione
Il secondo episodio di Sherlock conferma le atmosfere leggere e la prevalenza del sentimento sulle indagini del primo...
È questo uno dei tanti leitmotiv del secondo episodio della terza stagione di Sherlock, The Sign of Three. Quella che può sembrare una frase quasi ironica, buttata lì a caso da una bonaria Mrs Hudson, si tramuta nell'epigrafe più azzeccata di questa rocambolesca puntata. È la fine di un'era. John Watson (Martin Freeman) sta per convolare a giuste nozze con la fidanzata, Mary Morstan (Amanda Abbington). Il matrimonio è una cosa seria e cambia la vita, ma il più agitato di fronte al grande evento non è il buon dottore, né la bionda infermiera che gli ha rubato il cuore. No, la palma d'oro dello stress va nientemeno che a lui: all'impassibile, algido Sherlock Holmes. È la fine di un'era per Sherlock, che tra un discorso da testimone con cui allietare gli invitati e una valanga di ricordi con cui lottare, è suo malgrado davanti a tutti nelle deduzioni, ancora una volta; ma ce ne sono alcune che non si vorrebbero fare, pensieri che non si vorrebbero avere, e benché sia John che la dolce, dolcissima, dolcerrima Mary si prodighino in ogni modo per rassicurarlo, Sherlock lo sa bene, in cuor suo, che qualcosa sta irrimediabilmente per finire. E ne prende atto con un eroismo che commuove e che è la vera forza trainante dell'episodio.
Da un punto di vista visivo, la puntata non deluderà certo i palati che hanno apprezzato lo stile eclettico e il ritmo serrato che da sempre caratterizza la serie. Tornano le deduzioni sovraimpresse, in una chiave totalmente nuova e spassosa (che segue, non sappiamo quanto consapevolmente, una felice parodia dello show, già in rete da qualche tempo). La regia di Colm McCarthy è inappuntabile e mirabilmente asservita al racconto, e si concede il lusso di alternare la rodata grammatica visiva dei precedenti episodi con primissimi piani che evidenziano (non che ce ne sia bisogno) lo sconvolgente mosaico espressivo di Benedict Cumberbatch e di Martin Freeman, che raggiungono forse in questo episodio l'acme del loro talento individuale, prima ancora che di coppia. Fanno da corona tutti i comprimari: da quelli purtroppo relegati nell'angolo, come Greg Lestrade (Rupert Graves), a cui dobbiamo un esilarante incipit, o Molly Hooper (Louise Brealey), col cuore diviso tra vecchi e nuovi amori, a quelli più importanti, come la frizzante Mrs Hudson (Una Stubbs), sul cui passato verrà fatta finalmente un po' di luce, e ovviamente Mary Morstan (Amanda Abbington), che si conferma un'aggiunta al cast degna del plauso più sincero. È lei il personaggio che più di tutti incuriosisce, lasciandosi dietro ombre gettate qua e là e visibili solo ad un'occhiata molto, molto meticolosa.
La scelta di esplicitare ciò che nelle precedenti stagioni era stato implicito era già ravvisabile in The Empty Hearse, dove ogni emozione sembrava priva del silenziatore che aveva creato tanto incerto fascino nelle meccaniche di coppia di Sherlock e John. In The Sign of Three, non solo manca il silenziatore, ma lo sparo diventa una cannonata, e la cannonata è amplificata da megafoni. Si potrebbe considerare l'intero episodio come una sorta di lunga dichiarazione d'amicizia di Sherlock al suo fido compagno d'avventure, colui che, parafrasando una celebre frase del film d'amore per eccellenza, Titanic, lo ha salvato in tutti i modi in cui una persona può essere salvata. Ma il riferimento a Titanic non vuole suggerire nulla di malizioso, anzi: il gioco dell'equivoco, dell'amicizia fraintesa da tutti perché troppo bizzarra per rientrare in uno schema machista di spallate e cazzotti, è alla base dell'intera serie.
Ed è proprio in questa puntata che i dubbi sembrano dissiparsi una volta per tutte. Sherlock e John, complici l'alcol, la commozione e il nuovo corso delle loro vite, oltrepassano candidamente più volte la barriera della fisicità, e l'amicizia con la A maiuscola, che non osa pronunciare il suo nome, può finalmente camminare a testa alta, forte di una legittimazione pubblica e definitiva, senza ombre sensuali di alcun genere. Sono ancora una volta i piccoli gesti, le occhiate di sfuggita a raccontare molto più di quanto non faccia il didascalismo sentimentale dei dialoghi, e nell'ultimo, dolente sguardo di Sherlock al suo non-più-suo John si racchiude il fragore di una sofferenza meno dichiarata ma ben più intensa di qualunque bel discorso sull'amicizia, a ulteriore dimostrazione del valore del silenzio in un episodio pregno di costante horror vacui. In questo clima di intenzionale esagerazione, di messa al bando di ogni sfumatura e vaghezza, la vicenda si chiude con una porta spalancata più che socchiusa; e, va detto, l'espediente narrativo messo in campo da Gatiss, Moffat e Thompson è una trovata di sceneggiatura talmente banale e ritrita da corrompere l'aria con un aroma stantìo che finirebbe per rovinare l'atmosfera, se non ci fosse concesso il beneficio del dubbio nel terzo, conclusivo capitolo.
È lì che, stando ai microscopici ma comunque leggibili indizi seminati, il tono della stagione potrebbe capovolgersi in modo addirittura retroattivo, sconvolgendo gli equilibri e riallineando l'intera vicenda al tono più classico della saga investigativa. Staremo a vedere se His Last Vow deflagrerà in un tripudio di suspense e mistero, come proclamato dagli addetti ai lavori, rimediando così in extremis all'innegabile carenza di autentico brivido di questa terza stagione. Una cosa è certa: la conclusione dell'episodio è il punto più toccante di questi ottantasei minuti di crescendo dal riso al pianto. Dopo aver salvato e protetto coloro che ama, Sherlock si dirige rassegnato verso un futuro più solitario che mai. Ma nel vedere il consulting detective allontanarsi prematuramente dal ricevimento, l'amato cappotto a coprire l'abito da cerimonia, viene quasi da tirare un sospiro di sollievo. Dopo questo incessante bombardamento di sentimenti sbandierati, riconosciamo ciò che abbiamo davanti e non vediamo l'ora di poterlo seguire di nuovo, all'indomani di questa (magari davvero necessaria) parentesi. E vederlo di nuovo a suo agio, nei suoi antichi panni, mentre taglia con ampie falcate l'orizzonte di una Londra che è il suo unico, vero campo di battaglia. È davvero la fine di un'era? Forse: speriamo solo che la prossima non ce la faccia rimpiangere.