Sherlock 3x01: The Empty Hearse, la recensione

Il primo episodio dell'attesa terza stagione di Sherlock lascia perplessi, tradendo le proprie basi raffinate in favore di una leggerezza che sfiora la vacuità...

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Due anni sono tanti. Sono tanti per un uomo che ha assistito impotente allo sfracellarsi del proprio migliore amico, e che se lo vede tornare dall'oltretomba sano come un pesce. Sono tanti anche per il pubblico televisivo, che nel gennaio 2012 rimase col fiato sospeso a osservare la caduta di Reichenbach, lo schianto secco e inesorabile del grande Sherlock Holmes (Benedict Cumberbatch) di fronte agli occhi del suo fedele dottor Watson (Martin Freeman). In questi due anni, Sherlock ha letteralmente spopolato sul web, assicurandosi l'imperitura fedeltà di milioni di spettatori di tutto il mondo, convinti ogni oltre iniziale scetticismo (e chi scrive fa parte di questa categoria) del valore di questo ennesimo adattamento della saga di Sir Arthur Conan Doyle.

Le aspettative dei fan, in questi ventitré mesi, hanno avuto tempo di crescere, arrivando a livelli siderali grazie a visioni e revisioni dei sei episodi (tre per ogni stagione). Con la chiusura strappalacrime dell'ultimo episodio della seconda stagione, che vedeva un John Watson dignitosamente chiuso nel suo dolore dopo la scomparsa dell'amico Sherlock, il rischio era di virare irrimediabilmente sulla rotta del dramma sentimentale per abbandonare le avvincenti vie del romanzo poliziesco, che avevano costituito i binari fermi e sicuri della superba prima stagione e della comunque ottima, sebbene tra alti e bassi, seconda triade di puntate. Non che la prospettiva di osservare i battibecchi tra i due amici non fosse allettante: anzi, sarebbe quantomeno miope negare che buona parte del successo dello show è direttamente ascrivibile all'impressionante alchimia del duo Cumberbatch-Freeman, collante della narrazione anche nelle pagine più sfilacciate della sceneggiatura.

Da questo punto di vista, The Empty Hearse è riuscito a sfuggire alla minaccia di patinatura stile harmony per sposare toni brillanti e leggeri, a sostegno di un intreccio piuttosto semplice rispetto alle complesse architetture criminali messe in piedi nelle precedenti due stagioni. Assieme alla coppia di luminosi protagonisti, vediamo tornare vecchi volti come Mycroft (Mark Gatiss), fratello maggiore di Sherlock, che con l'investigatore dà vita a una gustosissima sfida a colpi di deduzione. Torna anche Molly (Louise Brealey), anatomopatologa da sempre innamorata del consulting detective, in un ruolo ben più rilevante - sul piano sentimentale - di quanto non sia stato finora. E se l'apparizione del detective Lestrade è circoscritta a pochissime, brevi scene, non c'è dubbio che nei prossimi episodi si avrà modo di poterlo nuovamente e ampiamente apprezzare. Felicissima new entry è Mary Morstan, fidanzata del neobaffuto John, sopraggiunta come angelo salvifico a rimettere insieme i cocci di un uomo distrutto dalla perdita della propria stella polare.

Nel ruolo del nuovo love interest del buon dottore c'è Amanda Abbington, compagna di Freeman anche nella vita, che dipinge in pochi tratti un personaggio vero ancor prima che verosimile, e che rende credibile con la propria interpretazione anche scelte narrativamente incerte - quale ragazza accetterebbe senza esitazione il ritorno dell'uomo che ha distrutto, seppur a fin di bene, la serenità del suo compagno?

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C'è molto autocompiacimento in questo The Empty Hearse, inutile negarlo. Autocompiacimento brillante, certo, che ammicca al pubblico di appassionati con allusioni via via sempre più audaci, ma che più di una volta schiacciano la finzione sotto un peso troppo grande per chi, dello show, non sia solo spettatore ma anche profondo conoscitore. Laddove la scelta di Amanda Abbington come Mary Morstan si è rivelata assolutamente impeccabile, in virtù della calda naturalezza della sua splendida performance, e ancora laddove il cameo dell'illusionista Derren Brown nel ruolo di se stesso non disturba e fa sorridere (più gli spettatori d'oltremanica che non quelli italiani), suscita invero qualche dubbio l'irrompere sulla scena di entrambi i genitori di Sherlock Holmes, interpretati nientemeno che da mamma e papà Cumberbatch in persona. Sono attori, per carità, e anche deliziosi nella loro breve apparizione, ma rappresentano l'ennesima strizzata d'occhio di un ammiccamento che, proprio per la sua reiterazione, perde via via d'efficacia. Ma in fondo, la comparsata dei genitori del talentuoso Benedict non incide poi molto sul bilancio, limitandosi a lisciare il pelo alla fetta di pubblico più preparata sulla vita privata dell'attore.

Sherlock 3_19Il peccato mortale di The Empty Hearse è un altro: la grossolanità. L'episodio appare da subito volto non tanto ad avviluppare lo spettatore nei meandri di un nuovo mistero, ma a trascinarlo in una sequela di scene che compongono un mastodontico ritratto psicologico di Sherlock, che paradossalmente aggiunge ben poco a ciò che già conoscevamo. Per il pubblico che ha imparato ad apprezzare la sua bizzarra sensibilità e la sua irritante sociopatia attraverso piccoli gesti, The Empty Hearse rischia di apparire come una caricatura del consulting detective e, di conseguenza, delle radici originarie del programma. L'umorismo sottile delle prime due stagioni sembra qui disperdersi in una non sempre felice deriva slapstick che ben poco ha a che vedere con le atmosfere a cui la serie ci ha abituati, e c'è un'approssimazione sentimentale che getta fumo negli occhi senza mai davvero commuovere o, quantomeno, intenerire. La scusa di dover reintegrare Sherlock nel suo habitat originario vale fino a un certo punto, perché a una serie che dona all'avido pubblico solo tre episodi ogni due anni non è concesso il lusso di sprecare nemmeno una scena. Non c'è battuta di spirito che valga un buon intreccio, non c'è romanticheria che salvi un giallo insipido. Va detto, a scanso di equivoci, che The Empty House (La Casa Vuota), racconto a cui l'episodio è ispirato, non brilla certo per la complessità dell'investigazione, essendo concepito per buona parte per reintrodurre in modo credibile Sherlock nella sua vecchia vita.

E dall'opera di Conan Doyle la puntata prende molti piccoli dettagli, ancora una volta mirati a far godere i fan della prima ora del detective più famoso del mondo: sono proprio queste, forse, le indulgenze più bonarie e autenticamente sincere della sceneggiatura, non contaminate dall'assordante, incessante ronzio di un fandom che ha visto realizzate, in una sola puntata, quasi tutte le proprie fantasie più ardite (e, per giunta, scarsamente sexy). Ricompensare un pubblico entusiasta è una cosa giusta e sana, pegno di una rispettosa riconoscenza a chi ha reso Sherlock una delle serie più amate ed apprezzate del pianeta. Ma c'è una grossa, grossissima differenza tra ricompensare e ricalcare.

Certo, il ricalco è di qualità, perché il pennello è retto da Mark Gatiss che, salvo rare cadute, è un narratore pressoché ineccepibile. Ma il divertissement a cui l'autore ha voluto cedere gli ha preso la mano, e ha finito per rendere questo episodio il più debole e meno raffinato di un (fino ad oggi) immacolato filo di perle. Ovviamente, toccherà aspettare la fine della stagione per poter giudicare il quadro d'insieme, e il prossimo episodio promette di riservare qualche brivido in più dal punto di vista narrativo. Tuttavia, le pennellate stese in questo incipit non sono delle più accurate, prescindono da ogni sfumatura in un irritante, a volte dozzinale schematismo e hanno il sapore di un minestrone che mescola troppi ingredienti per poter colpire efficacemente il palato.

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