Sharper, la recensione

Fa di tutto inizialmente Sharper per evitare le trappole del cinema di truffe iperbolico, e funziona. Peccato che non resista fino alla fine

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Sharper, disponibile su Apple TV+ dal 10 febbraio

Il cinema più scritto, quello in cui gli intrecci, i dialoghi e la struttura delle storie è più forte e centrale ad oggi viene dalla televisione, cioè viene da sceneggiatori che si sono formati e hanno lavorato nella serialità televisiva. È stato così per Gatewood e Tanaka, che dopo diverse serie create o scritte ora scrivono un film, uno fatto di svolte, intrecci e inganni, di un meccanismo preciso grazie al quale ingannare e sorprendere lo spettatore. E Sharper, a differenza di molti altri film del suo genere (il cinema di truffe) lo fa davvero. Soprattutto riesce nella più difficile impresa di mettere in scena truffe sia sorprendenti, che elaborate, che credibili (nei limiti di un film!). Almeno fino all’ultimo atto, in cui ogni vaga plausibilità molla gli ormeggi, prende il largo e scompare all’orizzonte, insieme al senso che si stava costruendo.

Era iniziata come una storia canonica che vuole essere originale senza troppi sforzi, ma almeno con una sua solidità. Vediamo i personaggi presi nella truffa (molti dei quali a loro volta diventano truffatori) uno alla volta, introdotti in segmenti a loro dedicati da cartelli con il proprio nome. Seguiamo la storia di uno, poi dell’altro e poi di un altro ancora e così via, saltando lungo momenti diversi comprendiamo cosa sia successo e mettiamo insieme i pezzi del puzzle. Questo meccanismo è quello più semplice per generare la sorpresa e la truffa nello spettatore, perché ogni volta siamo al corrente solo di una parte della storia che non ci consente di capire chi menta e chi dica la verità. Arrivati alla fine però, sgamato lo stratagemma a cui Sharper è eccessivamente attaccato, non diventa difficile stare un passo avanti al film e, cosa peggiore, starci anche quando esagera e diventa implausibile. Quella strana implausibile prevedibilità….

Eppure per due terzi Sharper aveva fatto vedere un cinema di grandissimo mestiere, diretto con estrema solidità da Benjamin Caron, che sa prendere dei personaggi ancora non spiegati e non raccontati e farli innamorare con una tenerezza e una tensione emotiva che escono dallo schermo. Sa prendere un’ambientazione da commedia romantica (una piccola libreria di quartiere!!) e trasformarla in qualcosa di metropolitano ed emotivo senza retorica. Infine sa mostrare in poco tutto quel fuoco di perdizione che alimenterà la truffa e la sua risoluzione, quello che brucia un uomo invaghito per davvero di una donna e della donna che dovrebbe truffarlo che non è mai chiaro se reciti o sia stata colpita a fondo da quell’amore così sincero. Purtroppo questi due non sono i protagonisti, che invece sono i più noti Julianne Moore e Sebastian Stan (la prima più ordinaria del suo solito, il secondo completamente insapore), e così il film vira ben presto su orizzonti più triti, sugli interni sofisticati, il lusso, il denaro da prendere a chi ce l’ha e la morale più scontata sulla spietata meschinità di chi pensa solo al capitale. 

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