Shark Bait, la recensione

Al largo delle coste uno squalo bianco si accorge che tra alcuni ragazzi americani qualcuno ha fatto sesso e lo va a prendere

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Shark Bait da giovedì 28 luglio al cinema

A seconda di come la pensiate 5 spring breakers a rischio di essere mangiati da uno squalo può essere lo spunto per un film di tensione come anche per una commedia a lieto fine nella quale lo squalo è il protagonista positivo. Shark Bait sceglie la via più seriosa, non curante di avere a disposizione un reparto effetti visivi di livello Asylum e quindi una resa non diversa da Sharknado. Solo senza la difficoltà di animare i tornado. Rimarrebbe un possibile film di tensione, uno in cui la minaccia non si vede ma si teme, almeno se James Nunn (no, non Gunn ma Nunn, già regista del quinto sequel di Presa mortale, con nemmeno più John Cena) non avesse l’ambizione di fare un film direct to video in un’era in cui quasi non esistono più che però va dritto in sala. Perché come privarsene, no?

La storia è quella di questi giovani americani pieni di alcol al mattino, dopo una lunga nottata, che in una zona deserta della spiaggia che frequentano in occasione dello Spring Break vengono messi in guardia dal fatto che in acqua c’è un “tiburon blanco”, cioè uno squalo bianco, da un vecchio amputato che parla spagnolo in uno dei più maldestri atti d’inclusività visti quest’anno. Spaventati non lo ascoltano (né capiscono) e prendono le moto d’acqua per divertirsi. Un incidente in un mare così aperto che non si vede terra nemmeno in lontananza (ma per quanto tempo le hanno guidate?) lascerà uno di loro ferito, una delle due moto inutilizzabile e l’altra ferma, utile ormai solo come zattera insufficiente per cinque persone. Ammollo con il sangue della ferita sparso in mare lo squalo lo stanno praticamente chiamando.

L’atmosfera è tesa, la paura sale e tra un morso e l’altro esce fuori anche una brutta storia di tradimento nel loro passato, scoperta proprio lì (perché hanno con sé uno smartphone che funziona nonostante sia caduto in acqua in profondità e tuttavia non prende) che finisce di condannare chi ha fatto sesso. Un classico rivisto. Nel cinema del passato, quello che aveva meno remore riguardo il sesso e amava rappresentarlo, gli atti spregiudicati e disinibiti che portavano alla morte erano quasi sempre filmati e mostrati e anche Spielberg, che non è proprio Tinto Brass, mostrava i suoi ragazzi pomiciare prima della morte in mare. Qui un atto sessuale è rievocato, sta nel passato e non è nemmeno immaginato. Sesso a parole nel vero senso del termine. Ma lo squalo non di meno li sente e fa il suo lavoro.

Ci si potrebbe anche divertire con Shark Bait ad averci lo spirito giusto, ma davvero il film sembra fare così poco perché si possa godere anche solo della sua scempiaggine e sembra al contrario così intento a dimostrarsi cinema di serie C con pochi mezzi ma molte idee da non rendersi conto di non avere nemmeno le seconde. Impensabile fare un film come questo e non capire quando è il caso di mostrare lo squalo e quando no, impossibile scriverlo senza saper creare vera tensione e senza immaginare un arco narrativo che ci faccia affezionare un minimo ai personaggi, in modo almeno da non tifare per la loro estinzione. 

Sarebbe davvero ingiusto tirare un ballo i paragoni con i migliori film di squali ma davvero basta anche solo Paradise Beach di Jaume Collet-Serra con Blake Lively per fare molto meglio di Shark Bait.

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