Shark Bait, la recensione
Al largo delle coste uno squalo bianco si accorge che tra alcuni ragazzi americani qualcuno ha fatto sesso e lo va a prendere
La recensione di Shark Bait da giovedì 28 luglio al cinema
La storia è quella di questi giovani americani pieni di alcol al mattino, dopo una lunga nottata, che in una zona deserta della spiaggia che frequentano in occasione dello Spring Break vengono messi in guardia dal fatto che in acqua c’è un “tiburon blanco”, cioè uno squalo bianco, da un vecchio amputato che parla spagnolo in uno dei più maldestri atti d’inclusività visti quest’anno. Spaventati non lo ascoltano (né capiscono) e prendono le moto d’acqua per divertirsi. Un incidente in un mare così aperto che non si vede terra nemmeno in lontananza (ma per quanto tempo le hanno guidate?) lascerà uno di loro ferito, una delle due moto inutilizzabile e l’altra ferma, utile ormai solo come zattera insufficiente per cinque persone. Ammollo con il sangue della ferita sparso in mare lo squalo lo stanno praticamente chiamando.
Ci si potrebbe anche divertire con Shark Bait ad averci lo spirito giusto, ma davvero il film sembra fare così poco perché si possa godere anche solo della sua scempiaggine e sembra al contrario così intento a dimostrarsi cinema di serie C con pochi mezzi ma molte idee da non rendersi conto di non avere nemmeno le seconde. Impensabile fare un film come questo e non capire quando è il caso di mostrare lo squalo e quando no, impossibile scriverlo senza saper creare vera tensione e senza immaginare un arco narrativo che ci faccia affezionare un minimo ai personaggi, in modo almeno da non tifare per la loro estinzione.
Sarebbe davvero ingiusto tirare un ballo i paragoni con i migliori film di squali ma davvero basta anche solo Paradise Beach di Jaume Collet-Serra con Blake Lively per fare molto meglio di Shark Bait.