Shantaram, la recensione
Shantaram ha l'aspetto della tv di qualità, ma non ha la stessa capacità di appassionare tenendo avvinghiati episodio dopo episodio
Che dentro Shantaram ci siano grandi ambizioni produttive è fuori di ogni dubbio. Non manca una fotografia curata, ambienti costosi, che possono essere ripresi con panoramiche, comparse, costumi, una colonna sonora coinvolgente che accompagna immagini piene di dettagli e illuminate con uno stile cinematografico. Quello che manca è tutto il resto: la capacità di raccontare bene una storia pazzesca, la sintesi necessaria per mantenere un ritmo accattivante e l’organizzazione razionale degli elementi.
Ci aveva provato Johnny Depp con la Warner Bros acquisendone i diritti una ventina di anni fa. Non se ne fece niente, nonostante il coinvolgimento di Peter Weir. Troppi costi e troppe persone coinvolte con idee troppo diverse. Le solite divergenze creative. Nemmeno l’ingresso di Mira Nair aiutò la produzione che nel 2008 cancellò il progetto. Shantaram continuò sotto traccia ad essere un guilty pleasure di Hollywood.
Charlie Hunnam interpreta il fuggitivo Lin Ford. Negli anni ’80 è evaso dal carcere dello Stato di Victoria dove era stato condannato a 19 anni di reclusione. Era un tossicodipendente che aveva commesso alcune rapine di cui una finita tragicamente. Diventa latitante a Bombay, si ritrova nei bassifondi sperduto come può esserlo un australiano in India. Gentiluomo nell’anima, duro nei muscoli, diventa uno Shantaram suo malgrado, ovvero un uomo di pace. Ad accompagnarlo nel suo percorso di redenzione saranno i molti incontri casuali per le strade, sin dal suo arrivo.
Il problema è che Shantaram è un po’ come il suo protagonista Lin: intrappolata nei luoghi, in attesa che qualcosa succeda. Si fa molta fatica a intuire a cosa serva tutto quello che accade, come una serie di situazioni e trame molto letterarie che non si fanno gustare però in forma di serie. Serve uno sforzo per dare fiducia e cercare di immedesimarsi. Manca completamente di pressione la maggior parte degli episodi. Senza tensione e senza una posta in gioco chiara, per gran parte del tempo si ha l’impressione che la miniserie giri a vuoto.
Si incontra la corruzione, la povertà, criminali a viso aperto e quelli che agiscono nel segreto. Shantaram non trova però il tono giusto in grado di immergerci nel nuovo mondo insieme al protagonista. Charlie Hunnam, infinitamente autocompiaciuto, non aiuta ad affezionarsi a Lin, stereotipato quanto l’India in cui si muove. Un po’ buon samaritano, un po’ criminale cerca il suo posto nel mondo. È però passivamente in balia degli eventi. Una soluzione che nelle pagine di un libro può funzionare. Qui, non avendo a disposizione la soggettività della prima persona e dei pensieri, fa sentire la mancanza di un appiglio emotivo. Il senso del pericolo è sempre stemperato. Il realismo anche, insieme all’ironia e allo sguardo di uno straniero in terra straniera. Doveva essere magico, è solamente piatto.
Shantaram pecca così tanto di consistenza che ad ogni cambio di location ci si sente come tornati indietro a qualche scena prima. Si perde la tensione saltando da un blocco di personaggi all’altro e ci si ritrova a supplicare di uscire dalle quattro mura, dai dialoghi troppo lunghi e poco taglienti, per far succedere qualcosa che rilanci le aspettative.
Accade molto raramente, così da collocare Shantaram nel cassetto delle occasioni prese con troppo ritardo. Dopo quello che è diventata la serialità attuale, un progetto come questo non tocca la sufficienza nonostante i suoi valori produttivi. Faticosissimo, mai graffiante, cade fidandosi troppo del materiale che ha tra le mani, quello sì, oggettivamente grandioso.