Shame - la recensione

[Venezia 2011] Steve McQueen porta a Venezia la storia di un sex-addict incapace di cambiare: un film convincente ma con i suoi difetti...

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Ritorna l’accoppiata Steve McQueenMichael Fassbender, il primo nelle vesti di sceneggiatore e regista, il secondo in quelle sue consoni di attore. Dall’Irlanda del 1981 del loro precedente lavoro, Hunger, ci spostiamo nella New York di oggi. Al centro della storia c’è un trentacinquenne businessman, abbastanza affermato nella vita lavorativa, ma più che mai segnato da una dipendenza dal sesso che lo porta ad ogni tipo di sfogo possibile: dai classici rimorchi al bar alle videochat erotiche, passando per prostitute e masturbazioni varie in ogni dove. Una vita dall’equilibrio ormai consolidato, impermeabile ai rapporti umani che non siano solo di natura carnale, ossessiva, ma che subisce una rottura con l’arrivo della sorella, una ragazza insicura che non ha un posto dove andare e vorrebbe riallacciare con il fratello un affetto che sembra ormai scomparso da tempo…

Raccontato così, il canovaccio di Shame potrebbe sembrare abbastanza convenzionale nei suoi vari snodi narrativi: un lui introverso, infelice, ma incapace di ammetterlo, cambia con “l’amore” (in questo caso tra fratelli). Non è così.

Il film non vive di una storia “esplicita”, non ci sono vere svolte se non verso l’epilogo, ma si muove come una sorta di spirale nell’animo del protagonista. E’ di lui che si parla all’inizio, è di lui, ma andando ancora più in profondità, che si parla alla fine. Ciò che rende il tutto affascinante è l’occhio di Steve McQueen, il suo dipingere in nero un fluido di situazioni, sentimenti e rigetti che spesso non hanno bisogno di alcun dialogo per entrare nell’animo di chi guarda. Gli basta uno sguardo del suo attore, Fassbender, duro e sofferente come una roccia erosa dal vento su un desolante promontorio nordico, lo fa con un utilizzo altrettanto puntiglioso dell’accompagnamento sonoro, a volte minimalista, a volte ariosamente classico (leggasi Bach), legato dal filo comune di un ordine preciso di composizione che ben rappresenta lo schema mentale del suo protagonista.

In questo vorticoso girare intorno allo stesso centro, i difetti purtroppo sono quelli a cui si prestano sempre i film che decidono di tirare in ballo argomenti visivamente forti. E’ facile stupire quando si mostrano in rapida successione orge e sangue, così come quella carnalità di cui il film si fa manifesto fin dall’inizio, con vari passaggi davanti alla macchina da presa del pene di Fassbender, sembra talvolta eccessivamente artificiale, troppo costruita per oltrepassare lo schermo.

Poco male, il bicchiere è comunque mezzo pieno e l’idea che ci siano ancora registi con una propria idea di cinema ben precisa, tanto scarna quanto avvolgente, non può che essere apprezzata.

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