Shadows, la recensione | Roma 15

Troppo concentrato sul suo grande mistero finale e poco capace di portare lo spettatore, Shadows scommette tutto su quello e poi perde pure la scommessa

Critico e giornalista cinematografico


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Shadows è un horror/thriller italiano. Mettiamoci comodi.

Non c’è genere che fatichi più di questo nel nostro cinema contemporaneo (si potrebbe menzionare la fantascienza se non fosse che semplicemente non esiste). Senza dubbio. Vanta un quantitativo eccezionale di tentativi spesso disastrosi, nei migliori casi promettenti, mai davvero convincenti al 100%. Shadows ha innanzitutto una buona fattura: è credibile, è girato con una buona conoscenza dei meccanismi del genere e con una testa in grado di ragionare sulle immagini e plasmarle fino a dargli la forma che serve per accreditarsi come film dell’orrore e di tensione.
Peccato che non ingrani mai e rimanga solo un gigantesco preambolo.

Il setting già parte bene. In un nulla mortificato dall’infamia di una natura infelice, un bosco umido e senza niente di buono, una famiglia composta da due figlie e una madre vive in un hotel abbandonato. In questo scenario postapocalittico in cui la vita è tornata ad una fase primitiva le tre donne vivono in totale autarchia, cacciando e fabbricandosi quel che serve. C’è qualcosa di pericoloso là fuori, per questo si esce solo di notte e si torna in fretta con l’ordine di non attardarsi né farsi notare. La luce del giorno pure bene non fa. Ma sempre di più le due figlie smaniano per uscire, diventare indipendenti e ogni indizio che, forse, quel che dice la madre non è vero le spinge più in là.

Purtroppo questo film diretto dal quasi esordiente Carlo Lavagna (aveva già diretto un film ma di segno completamente diverso, Arianna) e scritto da Damiano Bruè, Fabio Mollo (co-sceneggiatore e co-creatore di Curon), Vanessa Picciarelli (sceneggiatrice di Bangla e Summertime, tra gli altri) e Tiziana Triana (co-creatrice di Luna Nera) tira troppo a lungo il mistero senza dare in pasto al pubblico piccoli misteri intermedi. Cosa sia successo e perché i personaggi si trovino lì è il punto di tutto, ma non c’è altro se non un conflitto mal gestito con la madre a tenerci svegli. I piccoli orrori intermedi che dovrebbero dare far guadagnare al film il suo street cred oltre a traghettarci di scena in scena tenendo viva l’attesa e la curiosità per quello maggiore, non sono né efficaci né interessanti né creano tensione.

Shadows acquista un po’ di forza e sembra ingranare davvero solo quando finalmente si esce dall’hotel, ma è troppo tardi, è ormai passato più di metà film.
Non solo: a furia di affidarsi al suo mistero senza creare altri poli d’attrazione il film finisce per dipendere interamente da questo dettaglio. La risposta alla grande domanda ad un certo punto diventa l’unico possibile orizzonte di Shadows e quindi il suo unico possibile senso. Arriva a dipenderne così tanto da correre il rischio maggiore, quello di I soliti sospetti, cioè rimandare il piacere e il godimento del pubblico fino a che sono soggetti solo alla capacità del finale di stupire, emozionare, cogliere di sorpresa e spiazzare. Se non ci riesce crolla tutto, se ci riesce viene ricordato solo quello.

Senza spoilerare niente, si può dire che il fatto che il finale non sia una trovata originale ma già vista in un altro noto film non lo aiuta di certo a reggere questo peso inumano.

In realtà dentro la storia di Shadows ci sarebbe dell’altro: in primis un coming of age simbolico, suggerito in modo anche buono dagli improvvisi pudori di nudità, dal rapporto delle protagoniste con la madre e ovviamente dal più inequivocabile dei cicli mestruali. Ma non interessa a nessuno, non viene esplorato, non viene caricato.
Anche fuori dall’hotel nonostante una varietà e dinamicità maggiore il film rimane una questione di parole, duelli verbali, discussioni focose. Di azione, nel senso stretto del termine, ce n’é pochissima e mai capace di conquistare. Così, al netto della buona fattura, è praticamente impossibile reggersi davvero sulle proprie gambe d’orrore.

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