Repetita iuvant è un saggio, sempiterno detto latino che ci raccomanda di ripetere un concetto per consentirne piena assimilazione. Guardando Moo shu da asporto, quinto episodio di Shadowhunters, assistiamo al trionfo barocco di questo interessante concetto, portato all'estremo da un team sceneggiatoriale evidentemente incapace di elaborare più di due argomenti di conversazione per puntata. L'apertura di puntata è infatti dedicata a un tema finora affrontato solo settantasei volte in quattro episodi, ovvero il sommo affetto di Clary (Katherine McNamara) per la sua povera mamma scomparsa. Affetto che, già di per sé, non necessiterebbe nemmeno di spiegazione, essendo naturale espressione di pressoché qualsiasi rapporto madre-figlia. Figurarsi poi sentirlo ribadire ancora e ancora giunti quasi a metà stagione.C'è nuova materia di discussione in questo per nulla appassionante appuntamento fisso del mercoledì di Netflix
Ma state tranquilli, c'è nuova materia di discussione in questo per nulla appassionante appuntamento fisso del mercoledì di Netflix: la malcelata cotta di Alec (Matthew Daddario) per l'uomo a braccia conserte, alias Jace (Dominic Sherwood). Certo, forse un approfondimento sulla faida dei lupi mannari e la scoperta della licantropia del buon wannabe patrigno di Clary, Luke (Isaiah Mustafa), avrebbero costituito un elemento più utile al proseguio della storia, ma perché togliere attenzione alle schermaglie semi-amorose tra i protagonisti? Se c'è una cosa che abbiamo appreso nelle precedenti puntate di Shadowhunters, infatti, è proprio che le chiacchiere vincono sempre sull'azione, e la serie si dimostra quantomeno coerente con la verbosità palesata sin dal proprio esordio. Spezziamo una lancia a favore dello sviluppo del personaggio di Alec, che a suon di batoste friendzonanti viene tratteggiato in modo vagamente meno rozzo del resto dei suoi compagni, anche se il neonato interesse di Magnus (Harry Shum Jr) sembra già destinato a una trattazione superficiale quanto macchinosa.
Se l'espressività totalmente randomica di Katherine McNamara è ormai divenuta materia d'interesse quasi scientifico, il resto della ciurma d'attori non se la cava poi tanto meglio, a partire da un Dominic Sherwood comprensibilmente perplesso, la cui espressione di vago disgusto sembra accrescersi col procedere degli episodi. E come biasimarlo? Parallelamente delude anche Alberto Rosende, ormai ingabbiato in una macchietta nerd che appiattisce il potenziale del personaggio di Simon, in gran parte a causa di uno script approssimativo e confuso. È divenuto vampiro? O è forse in atto in lui una lenta metamorfosi? Difficile dare una risposta, come difficile è capire perché arco e frecce si materializzino dal nulla addosso ad Alec. In uno show che ha fatto del didascalismo una delle proprie caratteristiche primarie, ci aspetteremmo qualche indizio in più.
Inutile, tuttavia, avanzare pretese nei confronti di una serie che inanella con puntualità esemplare delusione dopo delusione; meglio ormai attenersi a una placida contemplazione, accettando di buon grado le rare note positive in un panorama di inedita desolazione.