Shadow of the Colossus, una remastered che ha il valore di un remake - Recensione
Una riedizione con i fiocchi: la recensione di Shadow of the Colossus
Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".
Non è la prima volta che Shadow of the Colossus torna dal passato, titolo già riproposto, qualche anno fa su PlayStation 3, quando lo standard da perseguire era l’alta definizione, feature in grado di resuscitare buona parte della softeca delle vecchie piattaforme targate Sony. La pratica delle remastered, del resto, è già da tempo la scelta politica, la strategia, il catalizzatore con cui il publisher nipponico sta rivitalizzando la sua collezione di capolavori.
Eppure, mentre si cavalca Agro per la prima (?) volta, nelle desolate lande che compongono l’alienante scenario in cui si consuma l’epopea di Wander, si ha la netta sensazione che qualcosa sia mutato, diverso, cambiato da come ce lo ricordavamo. Oggi come allora, non c’è praticamente niente e nessuno attorno al prode Wander, temerario mosso dall’insensato, egoistico e scellerato desiderio ossessivo di riportare in vita la bella Mono, vittima, s’ipotizza e si intuisce, dell’efferatezza dei suoi carnefici.
Invertire il ciclo della vita, lo sanno bene il Dottor Frankenstein, i fratelli Elric e un’altra mezza infinità di anti-eroi, non è mai indolore, né, in generale, una buona idea. Shadow of the Colossus reinterpreta e ripropone a modo suo questo tema, giocando con le apparenze, sovvertendo la rassicurante certezza del videogiocatore di agire sempre in nome del bene, nei panni del protagonista senza macchia.
La consapevolezza del proprio ruolo, in questa partita tra dei immortali e umanissimi guerrieri spinti da motivazioni contrastanti, la certezza del posto che si occupa in questa trama che ha le sembianze di un mito giunge poco a poco, figlia di un lento processo di ricomposizione di un puzzle i cui pezzi vengono forniti col contagocce, tramite brevi, ma significative cut-scene, intermezzi che cadenzano il progressivo ed irrefrenabile sterminio dei Colossi.
La vostra missione, difatti, sarà proprio questa: uccidere gigantesche creature, le uniche che sembrano abitare questo mondo tutto da esplorare, per ottenere il potere necessario a riportare in vita Mono.
Armati di arco e spada, verrete guidati di location in location da un fascio di luce, sino al cospetto della titanica creatura da abbattere secondo modalità che andranno scoperte usando cervello e intuito. Shadow of the Colossus, difatti, si comporta come una sorta di puzzle game, un’avventura in cui i dungeon non sono luoghi fisici, ma immensi nemici in cui trovare letteralmente la strada, il sentiero, la parete scalabile su cui arrampicarsi per giungere al punto debole."Nell’assenza, grazie all’assenza, si colgono i dettagli, i particolari"
Wander non è un’irreprensibile spadaccino, non ne ha bisogno, ma si aggrappa come pochi altri in circolazione e sarà proprio la ricerca del punto di appoggio, il primo quantomeno, a rendere difficoltoso ed emozionante l’alterco contro ogni Colosso.
Il gioco, se vogliamo, si riassume e si limita a questo, al cavalcare sino all’ennesimo puzzle da risolvere, usando anche un pizzico di abilità con il joystick, dote imprescindibile per evitare di finire schiacciati dal nemico.
La magia, il quid, ciò che rende il capolavoro di Fumito Ueda uno dei capisaldi del medium, non risiede nella sua sovrastruttura ludica, né si riconduce unicamente al pur lodevole e ammirevole level design che caratterizza ogni scontro. La poesia scaturisce proprio dalla proposizione di un’avventura così smaccatamente controcultura, quasi fosse un arrogante anti-manifesto che si contrappone con forza a tutto ciò che è tendenza, a tutto ciò che garantisce, quasi in automatico, il successo di un prodotto pensato per le masse.
Ciò valeva tredici anni fa, ma ha un peso specifico doppio oggi, epoca in cui Shadow of the Colossus si trova a battagliare con The Legend of Zelda: Breath of the Wild, ultimo episodio di una saga che sicuramente ha molti punti di contatto con la produzione Sony.
Più di altro, è proprio questa vicinanza con il capolavoro di Nintendo ad arricchire questa remastered di un’aurea dal sapore sconosciuto, quasi si trattasse di un’opera (quasi) nuova, perché noi fruitori, per primi, siamo nuovi, frutto di un’evoluzione, tecnica e ludica, che abbiamo contribuito a creare e che abbiamo seguito e incoraggiato negli anni.
La mappa, l’intera ambientazione che ospita l’epopea, è un luogo estremamente silenzioso, privo di vita ad esclusione di qualche animale di piccola taglia e dei Colossi stessi. Non ci sono missioni secondarie, né personaggi con cui interagire. Eppure, nell’assenza, grazie all’assenza, si colgono i dettagli, i particolari. Proprio in questa solitudine ci si abbandona ad un tipo di fruizione inedito, appunto, per gli standard a cui siamo abituati oggi. Laddove open-world zeppi di attività da svolgere coinvolgono e occupano ogni senso dell’utente, Fumito Ueda ha eliminato il superfluo, affinché ci si potesse concentrare sul dramma inscenato, affinché ogni panorama potesse scatenare una reazione, un’emozione, una minuscola esitazione che potesse distogliere il videogiocatore dalla sua missione sterminatrice.
Paradossalmente, si apprezza maggiormente la blanda esplorazione a caccia di frutti o code di lucertole, unici collezionabili capaci di garantire palpabili power-up al protagonista. Questa minuziosa ricerca svela ancor meglio la reale natura del gioco, una poesia ermetica, in cui ogni parola va assaporata e assimilata con estrema attenzione.
[caption id="attachment_181652" align="aligncenter" width="1000"] Eliminare tutti i Colossi richiede non più di una quindicina di ore in tutto. Al termine dell’avventura sbloccherete il Time Attack, unica modalità di gioco alternativa.[/caption]
Shadow of the Colossus rivive su PlayStation 4 grazie ad una remastered che ha il sapore di un vero e proprio remake. Il rinnovamento grafico è evidentissimo, frutto di un lavoro di ottimizzazione e rimodellazione davvero encomiabile. La differenza con la riedizione di qualche anno fa è netta, soprattutto in termini di pulizia d’immagine. Grazie a questi piccoli e grandi accorgimenti, la visione di Fumito Ueda, ancora oggi, è in grado di ammaliare ed estasiare nonostante una mole poligonale ed un’effettistica relativamente arretrata. Laddove non arriva la tecnica, del resto, ci pensa il comparto artistico, ispirato in ogni ambito, a confezionare un titolo dotato di grande personalità e carattere.
Sebbene dal punto di vista prettamente ludico non si ravvisano modifiche e novità, giocare oggi a Shadow of the Colossus può risultare straniante anche per chi ebbe il piacere di goderselo all’epoca della release originaria. Abituati ed assuefatti a open-world cacofonici e zeppi di punti di interesse, nonostante possa essere fuorviante ascrivere la produzione di Sony a questo genere, la creatura di Japan Studio interseca e sposa una linea di pensiero, un concept, diametralmente opposto fatto di lunghi silenzi, piccoli accenni, ritmi blandi. Lascia che sia l’ambientazione a parlare e comprime tutta l’azione negli scontri contro i Colossi che assumono le sembianze di giganteschi puzzle in movimento, da risolvere affidandosi alle poche risorse e armi messe a disposizione.
Non un gioco per tutti, insomma, ma certamente un remake fondamentalmente imperdibile per i curiosi che non ebbero la fortuna all’epoca della release originaria, nonché per tutti coloro che da anni non (ri)vivono le gesta del prode Wander.