Shadow Of Fire, la recensione | Festival di Venezia
Con Shadow Of Fire si chiude la trilogia sulla violenza di Tsukamoto, e si chiude mettendo in scena la violenza come un demone
La recensione di Shadow Of Fire, l'ultimo film di Shin'ya Tsukamoto, presentato nella sezione Orizzonti del festival di Venezia
All’inizio conosciamo una donna che gestisce una locanda miracolosamente scampata all’incendio successivo a un bombardamento. La comunità è decimata, i pochi sopravvissuti cercano qualcosa da mangiare, è gente violenta o traumatizzata e quando lei entra in contatto con questo bambino di circa 6 anni sembra più infantile di lui, legata a idee come trovare un lavoro legale, mentre lui porta cibo alla locanda aiutando la borsa nera e girando con una pistola. È il primo di tre incontri che il bambino fa e attraverso i quali il film esplora la violenza, sempre con lo spettro che lui se ne macchi.
Per tutto il film la violenza sarà vista come un demone che si impadronisce delle persone e che quando lo fa non le lascia più, anzi le peggiora di continuo. È il modo in cui Tsukamoto concepisce i suoi film, come storie e immagini di esseri umani dominati sempre da qualcosa. I suoi personaggi non hanno archi narrativi ma sono penetrati da sensazioni, ossessioni, malattie o anche oggetti che li cambiano attraverso un processo doloroso e deviato. Così tanto che anche quando si spara a un uomo qui il sangue schizza come se avesse subito un colpo di katana. E questo in sé è un modo di ragionare sempre e solo per immagini e solo poi per concetti che anche nei film più blandi illumina lo schermo e apre le menti.
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