Il sesso degli angeli, la recensione

Svicolando qualsiasi tema interessante, Il sesso degli angeli declina la poetica strapaesana di Pieraccioni trovando nuovi modi per fare avanspettacolo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il sesso degli angeli, in uscita il 21 aprile

Non parla con Dio il prete protagonista di Il sesso degli angeli ma semmai con Massimo Ceccherini, fantasma dello zio ormai defunto che gli ha lasciato in eredità un bordello in Svizzera per dissuaderlo con la tentazione della carne e del denaro, dalla vita da prete. Il prete è Leonardo Pieraccioni stesso, convertitosi da qualche tempo anche lui al cinema “high concept” italiano (virgolette d’obbligo) cioè le commedie con una sinossi di forte impatto. Una volta i suoi più grandi successi non ne avevano bisogno, erano storie ordinarie con una vena comica e le attrici giuste. Adesso anche Pieraccioni scrive storie con premesse accattivanti (“un prete deve gestire un bordello”) ma le inevitabili conseguenze fiacche. Il cambio è solo in superficie.

Non stupirà nessuno la notizia che Il sesso degli angeli è infatti la fiera del doppio senso. Don Simone, parroco di provincia, ha bisogno di soldi per la sua parrocchia e il lascito dello zio viveur e scapestrato casca a fagiolo. Tuttavia, arrivato in Svizzera per scoprire in cosa consista, si trova di fronte un bordello di alta classe che lui inizialmente scambia per un bar molto alla moda. Tra “cannucce”, “servizi” e tutto il resto i dialoghi scivolano via con una forte impronta d’avanspettacolo, che poi è la matrice di tutto Pieraccioni: far ridere e intrattenere affiancando cosce di donne (le prostitute, tutte stupende e sempre in abiti sexy anche fuori dal lavoro) ad un signore con il farfallino che recita storielle umoristiche (Marcello Fonte nel ruolo della caricatura di se stesso). Scoperto e accettato l’arcano il prete assieme alla maitresse Sabrina Ferilli gestirà per qualche giorno il bordello in attesa di capire cosa farne, come uscirne e che decisione prendere.

Viene qui confermato l’unico possibile tratto autoriale del cinema di Leonardo Pieraccioni: il suo essere sempre provinciale, qualunque sia la trama. La scrittura di ogni sua impresa per il cinema è un canto di marginalità, di personaggi inseriti in contesti provinciali alle prese con piccoli grandi eventi per loro traumatici. Il suo è un repertorio di soluzioni da paese che possono essere sfruttate comicamente quasi inesauribile, piccoli uomini dalle limitate ambizioni che vivono bene ai margini da tutto. Stavolta sarà un viaggio verso il nord più nord possibile (la Svizzera), in cui è il confronto con una morale più tollerante e costumi più evoluti a svelarne le limitate ambizioni.

Nonostante l’annuncio e la promessa dei soldi sembrino cambiare tutto per la piccola parrocchia (tema interessante e per nulla sfruttato di come per i fedeli il denaro cambi umore, fomenti eccitazione e sia un passo avanti) davanti ad un ostacolo, cioè il confronto con una morale, idee e valori diversi dai propri il prete si perde, frena ogni entusiasmo e ripiega rinunciando alla grandezza che lo aveva fomentato. È esattamente lo stesso movimento di un film che a confronto con un tema potenzialmente incendiario si spegne e va a parare su matrimoni e redenzioni. Nulla di eccezionale, tutto di ordinario e anche un bigliettino finale a lui consegnato spegne nell’insipienza quella che poteva essere una sottotrama minimamente interessante se affrontata davvero.

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