Il sesso degli angeli, la recensione
Svicolando qualsiasi tema interessante, Il sesso degli angeli declina la poetica strapaesana di Pieraccioni trovando nuovi modi per fare avanspettacolo
Non parla con Dio il prete protagonista di Il sesso degli angeli ma semmai con Massimo Ceccherini, fantasma dello zio ormai defunto che gli ha lasciato in eredità un bordello in Svizzera per dissuaderlo con la tentazione della carne e del denaro, dalla vita da prete. Il prete è Leonardo Pieraccioni stesso, convertitosi da qualche tempo anche lui al cinema “high concept” italiano (virgolette d’obbligo) cioè le commedie con una sinossi di forte impatto. Una volta i suoi più grandi successi non ne avevano bisogno, erano storie ordinarie con una vena comica e le attrici giuste. Adesso anche Pieraccioni scrive storie con premesse accattivanti (“un prete deve gestire un bordello”) ma le inevitabili conseguenze fiacche. Il cambio è solo in superficie.
Viene qui confermato l’unico possibile tratto autoriale del cinema di Leonardo Pieraccioni: il suo essere sempre provinciale, qualunque sia la trama. La scrittura di ogni sua impresa per il cinema è un canto di marginalità, di personaggi inseriti in contesti provinciali alle prese con piccoli grandi eventi per loro traumatici. Il suo è un repertorio di soluzioni da paese che possono essere sfruttate comicamente quasi inesauribile, piccoli uomini dalle limitate ambizioni che vivono bene ai margini da tutto. Stavolta sarà un viaggio verso il nord più nord possibile (la Svizzera), in cui è il confronto con una morale più tollerante e costumi più evoluti a svelarne le limitate ambizioni.