Servant stagione 4, la recensione dei primi tre episodi

Servant si conferma nei suoi punti di forza e di debolezza: è una tela su cui sperimentare e un assurdo mistero che attende un colpo di scena

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All’inizio di ogni stagione di Servant ci si sente sperduti. Passa un anno e, nonostante ogni sforzo, poco si ricorda del punto in cui si è arrivati (è utile in questo caso rivedere l’ultimo episodio precedente). Sembra è di essere sempre fermi, come se lo status quo fosse intoccabile sia negli eventi che nelle opinioni che i personaggi hanno di Leanne e su quello che gli sta succedendo. Ma questo, lo capiamo dalle prime tre puntate di questo ultimo atto, è proprio il punto della serie. Un eterno ritorno dell’identico, un limbo che avvolge la casa e gli spettatori.

Perché Servant è la sua atmosfera, ancora più che il mistero. È un parco giochi costruito apposta dai suoi autori (Tony Basgallop, ma sembra valere ancora di più per Shyamalan) per provare suggestioni e virtuosissimi di tensione. Arrivati alla quarta stagione però il miracolo che ha coinvolto Jericho, fatto risorgere dalla sua tata usando (forse) come transfer fisico una bambola reborn, chiede di arrivare a una soluzione. All’interno della casa le possibili variazioni sono finite, e già una certa stanchezza si avvertiva dal finale dell’anno scorso. 

Adesso quindi è tempo di uscire di aumentare la scala degli eventi. Lo conferma anche sigla iniziale ambientata all’esterno sotto la pioggia. Il primo episodio, straordinario, è una promessa: quasi interamente poggiato sulle spalle di Nell Tiger Free è un distillato di tensione surreale che avviene fuori dalle mura domestiche. Premette l’inizio di una guerra i cui confini sono ancora molto opachi. Qualcuno irrompe in casa, Leanne scappa e viene braccata. Inizia la paranoia: chiunque, tra la folla, può essere un agente della chiesa da cui è fuggita. Bisogna quindi riconoscerli sulla base dei gesti, dei loro sguardi, della pelle. La sopravvivenza dipende dal saper decifrare i comportamenti degli altri, capire chi siano veramente. Quando è così, la serie è al suo meglio. Uno studio delle viscere, carnali, emotive e spirituali, veramente pazzesco.

Dai fantasmi alle streghe, Servant ama cambiare ogni stagione la sua ispirazione horror. In questo caso sembra tenere banco il concetto di maledizione, quasi demoniaca, perpetua e apocalittica. Sedute spiritiche, insetti e presenze in un nucleo famigliare ormai sempre più in decomposizione e sempre più disperato tengono saldo quello che è ancora il tema principale: la crisi di coppia, il lutto, il divorzio.

Si sono gradualmente alzati i toni della recitazione, tutti ormai lavorano su un registro sopra le righe non sempre adatto alla gravitas di quello che succede. Rupert Grint resta un jolly in scena, l’unico che dice quello che vogliamo sentire quando la trama si incarta; il ripiego umoristico (e distaccato) quando le cose si fanno troppo implausibili. A Lauren Ambrose è affidato il compito più difficile. La sua già complessa Dorothy, ora allettata, deve lavorare solo con gli occhi e con la voce, mostrando però in questo caso tutti i limiti di un’interpretazione troppo marcata.

Servant continua quindi a tenere aggrappati più che per la sua trama, per le possibilità narrative che offre. Al suo meglio è un’esplosione di creatività, al suo peggio è, un po’ come fu il tardo Lost, un appassionante e improbabile mistero che si teme non abbia una soluzione soddisfacente. Per questo la serie dovrà fare affidamento a tutto il talento di Shyamalan nel costruire finali che ribaltano e svelano.

È questo il momento più delicato, quello su cui si giocherà l’intero progetto. Sulle sue spalle pesano delle aspettative raramente richieste alle altre serie. Questa stagione più che tirare le fila dovrà strappare il tessuto di quello che abbiamo creduto autentico. Non si potrà finire senza poter anche ricominciare da capo, riguardare tutto, con una nuova consapevolezza. Per raggiungere la vera grandezza a Servant serve il trucco di magia finale. Serve presto. 

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