Servant (seconda stagione): la recensione
La prima stagione di Servant parlava di fantasmi e di assenze. La seconda è di streghe e di presenze. Si perde qualcosa, ma non il cuore
La seconda stagione, sempre creata da Tony Basgallop vede ancora M.Night Shyamalan come produttore esecutivo e regista di una puntata.
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In Servant gli oggetti appaiono come distanti osservatori delle vicende. Il cibo è invece una preda. Viene osservato con occhio pornografico mentre viene sviscerato, cotto, rotto, mangiato. È tutta la carne che, la presenza immateriale che aleggia sulla famiglia Turner, non può avere.
Servant sta cambiando pelle, e si vede. Gli ci vogliono quattro - cinque episodi per assestarsi e spiccare il volo, mentre sapeva essere accattivante sin da subito. I Turner ora non hanno più a che fare con due intrusi in casa (Leanne e il bambino), ma devono fare i conti con la loro solitudine. Devono tornare indietro e riguadagnarsi tutto quello che hanno avuto in prestito: ovvero l’ideale di una vita felice.
Servant cambia gradualmente registro, perde i fantasmi e diventa una storia di streghe. L’intera stagione è dominata dallo scontro tra due donne: la madre con l’anima spezzata e la giovane domestica. Una serva del signore, o forse del diavolo, sempre in costante tensione tra il portare gioia e il conflitto interiore una natura da anticristo. Il mistero richiede, probabilmente, ancora molto tempo per essere risolto. Ma, forse, a Servant non restano ancora troppe carte da giocare.
Si perdono infatti molti brividi, in un intreccio tormentato tra segreti, incomprensioni, doppie, triple bugie. È un castello di carta che fatichiamo a credere possa stare in piedi. Come è possibile che tutto il mondo che circonda i Turner creda alle storie raccontate? Come è possibile che la polizia sia così clemente rispetto ai primi sospettati di un rapimento?
È una stagione scritta più alla svelta, che inizia a dare l’idea di una serie che non sa bene dove sta andando a parare. Che già alla seconda stagione sta dilatando i tempi per poter sopravvivere a lungo, avendo però ancora molta poca corda da dare a noi spettatori. Potrebbe essere solo una sensazione in una decina di episodi che fanno da ponte per nuovi sviluppi, ma sembra veramente aggiungere poco a quello che abbiamo visto lo scorso anno.
Restano però costanti alcuni punti di eccellenza: Rupert Grint è travolgente. Lontano da essere ben scritto, il suo personaggio è però un concentrato di vitalità e depressione comica, che ben bilancia le atmosfere tetre della serie. Il crescendo, per quanto affaticato, funziona. Josephine, la donna velata che entra in casa Turner per risolvere la "questione Leanne" sembra nascere dalla fantasia di James Wan. I media sanno poi essere inquietantissimi. I brividi arrivano attraverso found footage, filmati, immagini di repertorio, collegamenti FaceTime. È un modo molto efficace di intendere il terrore contemporaneo, soprattutto in piena pandemia.
I demoni che ci creiamo con le nostre bugie camminano all’esterno nelle strade. Non visti, ignorati sono gli ultimi. Sono le persone che si mischiano tra la folla come numeri, ma che riescono ad entrare nelle case come individui. E lo fanno grazie alla finestra degli schermi televisivi, dei cellulari o dei computer che ce li racconta nella cronaca. Una volta che ci accorgiamo che quello spazio è aperto, ce li troviamo vicino a noi, a banchettare allo stesso tavolo, come una nuova, grande famiglia.
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