Servant (seconda stagione): la recensione

La prima stagione di Servant parlava di fantasmi e di assenze. La seconda è di streghe e di presenze. Si perde qualcosa, ma non il cuore

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La prima stagione di Servant era una storia di fantasmi e di assenze. C’erano un bambino morto, una madre incapace di accettare il dolore e una particolare terapia per superarlo. A Dorothy, disconnessa dalla realtà, viene affidata una bambola reborn (dalle fattezze estremamente realistiche). Non sa che è inanimata, offuscata dal dolore è convinta che sia il suo bambino, Jericho, morto da poco in tragiche circostanze. Se ne deve prendere cura per sublimare il lutto e arrivare gradualmente a una nuova consapevolezza. Quando arriva in casa Turner la nuova tata Leanne, tutto cambia. Un vagito nella stanza del piccolo Jericho. I genitori accorrono, nella culla non c’è più un bambolotto, ma un bambino vero e... vivo.

La seconda stagione, sempre creata da Tony Basgallop vede ancora M.Night Shyamalan come produttore esecutivo e regista di una puntata.

La prima stagione di Servant si giovava di un'atmosfera simile a quella de Il sesto senso, che le permetteva di essere affascinante e snervante nella migliore delle accezioni. Ogni scena era permeata dalla sensazione di una presenza all’interno della casa. La cantina, piena di vini pregiati, le lunghe scale, fino alla soffitta, facevano dell’edificio uno scheletro che ingabbia la famiglia. Non è un caso che proprio nel Sesto Senso la scena di apertura mostri la moglie di Malcolm Crowe mentre scende in cantina a prendere una bottiglia di vino per festeggiare. È lì che la donna avverte un brivido lungo la schiena che la fa correre di corsa su per le scale.

In Servant gli oggetti appaiono come distanti osservatori delle vicende. Il cibo è invece una preda. Viene osservato con occhio pornografico mentre viene sviscerato, cotto, rotto, mangiato. È tutta la carne che, la presenza immateriale che aleggia sulla famiglia Turner, non può avere.

Nella seconda stagione gran parte di queste intuizioni si perdono però in una trama sempre più involuta e meno affascinante della sua premessa. Alla regia l’ampio ventaglio di talenti non riesce a incidere fino in fondo. Nemmeno la talentosa Julia Ducurnau (Raw - Una cruda verità) riesce a rendere quella fascinazione dello scavare nella superficie per trovare le interiora (ovvero le verità nascoste, i non detti). Solo Shyamalan padre (anche la figlia dirige due episodi) riesce a trovare soluzioni visive sempre nuove per inquadrare la casa. Gli altri episodi si adagiano a livello formale, si mettono a servizio dell'intreccio.

Servant sta cambiando pelle, e si vede. Gli ci vogliono quattro - cinque episodi per assestarsi e spiccare il volo, mentre sapeva essere accattivante sin da subito. I Turner ora non hanno più a che fare con due intrusi in casa (Leanne e il bambino), ma devono fare i conti con la loro solitudine. Devono tornare indietro e riguadagnarsi tutto quello che hanno avuto in prestito: ovvero l’ideale di una vita felice.

Servant cambia gradualmente registro, perde i fantasmi e diventa una storia di streghe. L’intera stagione è dominata dallo scontro tra due donne: la madre con l’anima spezzata e la giovane domestica. Una serva del signore, o forse del diavolo, sempre in costante tensione tra il portare gioia e il conflitto interiore una natura da anticristo. Il mistero richiede, probabilmente, ancora molto tempo per essere risolto. Ma, forse, a Servant non restano ancora troppe carte da giocare.

Si perdono infatti molti brividi, in un intreccio tormentato tra segreti, incomprensioni, doppie, triple bugie. È un castello di carta che fatichiamo a credere possa stare in piedi. Come è possibile che tutto il mondo che circonda i Turner creda alle storie raccontate? Come è possibile che la polizia sia così clemente rispetto ai primi sospettati di un rapimento?

È una stagione scritta più alla svelta, che inizia a dare l’idea di una serie che non sa bene dove sta andando a parare. Che già alla seconda stagione sta dilatando i tempi per poter sopravvivere a lungo, avendo però ancora molta poca corda da dare a noi spettatori. Potrebbe essere solo una sensazione in una decina di episodi che fanno da ponte per nuovi sviluppi, ma sembra veramente aggiungere poco a quello che abbiamo visto lo scorso anno.

Restano però costanti alcuni punti di eccellenza: Rupert Grint è travolgente. Lontano da essere ben scritto, il suo personaggio è però un concentrato di vitalità e depressione comica, che ben bilancia le atmosfere tetre della serie. Il crescendo, per quanto affaticato, funziona. Josephine, la donna velata che entra in casa Turner per risolvere la "questione Leanne" sembra nascere dalla fantasia di James Wan. I media sanno poi essere inquietantissimi. I brividi arrivano attraverso found footage, filmati, immagini di repertorio, collegamenti FaceTime. È un modo molto efficace di intendere il terrore contemporaneo, soprattutto in piena pandemia.

I demoni che ci creiamo con le nostre bugie camminano all’esterno nelle strade. Non visti, ignorati sono gli ultimi. Sono le persone che si mischiano tra la folla come numeri, ma che riescono ad entrare nelle case come individui. E lo fanno grazie alla finestra degli schermi televisivi, dei cellulari o dei computer che ce li racconta nella cronaca. Una volta che ci accorgiamo che quello spazio è aperto, ce li troviamo vicino a noi, a banchettare allo stesso tavolo, come una nuova, grande famiglia.

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