Servant 3x05 “Tigre”: la recensione
Servant è sempre più capace di leggere il presente, ma perde inesorabilmente tensione su una trama che deve svoltare il prima possibile.
Alla fine Servant non potrà essere mediocre. O il finale funzionerà, e quindi tutte le domande e le teorie avranno avuto senso, o fallirà nel dare risposte facendo crollare tutta la struttura. Non come Lost, dove il finale chiudeva le tante trame seppur in maniera per qualcuno non soddisfacente. Qui il rischio è proprio di non riuscire a dare risposta alle molte domande generate. Arrivati a metà della terza stagione viene da chiedersi se i tanti dettagli che stonano con la realtà dei personaggi siano voluti o vittima di errori o trascuratezza. Se molti dei grattacapi siano briciole di pane messe sulla strada maestra o solo dimenticanze.
Ancora tanti misteri da risolvere nella stagione 3 di Servant
A ben guardare le cose che sappiamo sono ancora pochissime: abbiamo visto come è morto il bambino, anche se mancano ancora molti dettagli importanti. Sappiamo i rapporti interni alla famiglia e il passato di ciascuno, soprattutto quello di Julian. Sappiamo che Leanne e Jericho sono legati e che la vita dell’uno è dipesa dall’altra. Le prove di tutto il resto sono scarse, se non proprio inattendibili. Tanto che chi crede che i Turner siano in realtà morti ha molte più armi per la sua argomentazione di quanto dovrebbe essere possibile. Non sono tanto le cose che accadono a destrare sospetti, ma il modo in cui i protagonisti le vivono.
Un episodio che gioca con i confini della narrazione
Tiger, il titolo originale di questo quinto capitolo, gioca con i confini della narrazione. La tigre che viene dipinta sul volto di Leanne è presente anche nel nome dell’attrice che la interpreta: Nell Tiger Free. Solo che di libertà, in questa serie, il personaggio ne ha ben poca. Come in un videogioco dove si toccano i confini del mondo esplorabile, il suo personaggio si ritrova respinta indietro, sempre dentro la casa.
Non c’è cosa più terrorizzante per Servant dell’industria del divertimento. Sulle scene di vita quotidiana imprime un distacco tale da fare emergere tutte le stranezze di quello che “gli umani” chiamano tempo libero. Le grida di gioia come versi, il non sense di cose a cui abbiamo attribuito un valore caldo e rilassato, come truccarsi da animale, vincere enormi pupazzi, stare al centro del rumore e del caos, accrescono lo straniamento.
Quanto c’è della pandemia in questa sceneggiatura? Forse molto meno di quanto sarebbe logico pensare. Perché la serie ha sempre parlato di queste cose: è un racconto di alienazione attraverso il dolore. Le solitudini della contemporaneità uccidono, deprimono, creano mostri.
Produttivamente si va all’opposto: quando il buon senso avrebbe detto di continuare a mantenere il cast limitato a 4-5 elementi chiave, la voglia di uscire dallo stallo porta a fare il contrario.
Non ci sono mai stati così tanti comprimari in questa serie come negli episodi girati dopo che il mondo è stato chiuso in casa per mesi. Allora l’audiovisivo post-covid può affrontare questo, per attualizzarsi senza essere stucchevole o retorico: non la difficoltà nello stare separati, non l’isolamento delle case, ma il diverso rapporto che abbiamo con le folle. L’agorafobia nata in persone socievoli, la consapevolezza che l’incolumità non dipenda solo dalla prudenza individuale, ma anche dalle buone intenzioni altrui, sono l'orrore che ci portiamo dentro.
In questo episodio senza infamia e senza lode si continua però bene questo discorso che denota ancora una volta una grande idea di serialità che accompagna per un lungo periodo. La riuscita della narrazione nella sua totalità è incerta. L’attinenza e la capacità di osservare il presente sono invece fuori discussione.