Servant 3×02, “Alveare”: la recensione
Alveare è uno degli episodi migliori di Servant fino ad ora: distorce con orrore la normalità dando un costante senso di decomposizione
Il paranormale è ancora contenuto, abilmente riportato nei ranghi dopo le esagerazioni dei precedenti episodi. Siamo nel territorio del Sesto Senso, dove la realtà viene ripresa con oggettività salvo infilare all’improvviso un qualcosa di straniante: un intruso in casa, un animatore dalle movenze inquietanti, qualche dettaglio fuori posto che suggerisce una congiura più grande. La soggettività è totalmente quella di Leanne, una ragazza terrorizzata e, ancor prima, traumatizzata. La dimensione del vissuto precedente, quello che ci è stato raccontato ma che non abbiamo mai visto, diventa in Servant un qualcosa che mette in crisi l’attendibilità del narratore.
LEGGI: Servant 3×01: la recensione
Servant è una serie in decomposizione, dove tutto sa di marcio. Il buon cibo cucinato con attenzione, come i volti anonimi e curatissimi delle persone, hanno un aspetto di post-vita; è fuori dal tempo, in un eterno presente, come morti viventi oziano in un continuo fare e affaccendarsi improduttivo. L’ossessione per il mangiare diventa così una nuova forma di attaccamento alla realtà terrena, mentre il soprannaturale entra, inaccettato e spaventoso, tra le quattro mura domestiche.
Alveare è uno degli episodi migliori della serie per quanto visto fino ad ora perché progredisce quel senso di accerchiamento che è alla base del mistero, e fa una satira lancinante della società moderna. Usi e costumi di una socialità forzata tanto da diventare un meccanismo di oppressione. Dà ragione agli agorafobici e ai solitari e per questo non poteva arrivare in un periodo emotivamente migliore.
Raro nella serialità, ma non nella produzione di Shyamalan, c’è anche una sorta di giocosità in tutte le fasi di produzione: c’è libertà di chi scrive, voglia di sperimentare soluzioni nella messa in scena, e il cast accoglie il manierismo per spiazzare. Si sperimenta senza avere paura di sbagliare (a volte lo fanno, ma gli alti sono ancora molto più consistenti dei bassi). Certo, a volte esagerano con le stesse facce stranite riprodotte più e più volte (come la Dorothy di Lauren Ambrose). Nell Tiger Free usa invece il suo corpo slanciato come uno spettro. Entra in scena come fragile ragazza e improvvisamente si tramuta in presenza spaventosa sullo sfondo.
Il coraggio di avvicinarsi agli oggetti in scena, che sia polpa di pesce tagliata di netto o uno sguardo assente, denota la voglia di provare di tutto. Si usa lo spunto iniziale, e la piattaforma seriale, come base per far mostra di stili. Finché il gioco regge, avendo quella minima plausibilità e riuscendo a coinvolgere lo spettatore nel guardare ancora e ancora, le soddisfazioni sono altissime. Quello che non stagna e non si decompone è infatti la progressione di puntata in puntata, che si rinnova e cambia focus, offrendo un prodotto sempre diverso pur nella sua coerenza interna. Anche se muoversi sui confini della realtà non è mai semplice; basta una distrazione e si cade senza poter più tornare in carreggiata.