Separated, la recensione: quando una storia non ha bisogno di un documentario

Separated parte da una giusta denuncia: la separazione delle famiglie operata dal governo USA nella gestione della crisi ai confini con il Messico. Ma serviva veramente un documentario?

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Per certe storie non serve un documentario. Sembra essersene reso conto anche Errol Morris mentre girava Separated. Un progetto dall’intento politico e umanitario, un’opera di denuncia rivolta all’amministrazione Trump senza nemmeno troppa verve. Si parla della separazione delle famiglie di migranti, colti nell’atto di attraversare il confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Appena dopo le elezioni del 2017, l’amministrazione repubblicana neoeletta si è ritrovata a gestire la crisi al confine, oggetto di un acceso dibattito in campagna elettorale e, secondo gli analisti, il tema che diede la svolta alle elezioni. La risposta del governo alle pressioni fu all’insegna della durezza con l'applicazione di politiche atte a disincentivare l’attraversamento illegale. Una di queste consisteva nel separare i minori dai propri genitori o dai parenti con cui hanno affrontato il viaggio

Da un lato si rassicurava l’opinione pubblica sostenendo di limitare le separazioni a pochi casi e, soprattutto, ad applicarle per proteggere i bambini. Nel frattempo però gli organi adibiti alla gestione dell’emergenza registravano altri numeri, quelli di un’emergenza umanitaria. Con i centri di accoglienza pieni di bambini iniziò negli Stati Uniti un processo contro il governo e una corsa a cercare di ricongiungerli con le proprie famiglie

Animato dall’indignazione per i fatti accaduti, Separated si limita a raccontarli senza però trarre conclusioni particolarmente brillanti. Non prova nemmeno ad espandere il ragionamento più di quello che potrebbe fare una qualsiasi persona debitamente informata dei fatti. Le testimonianze, la cronaca di come si è arrivati a perpetrare abusi sui minori di stato (o addirittura tortura, si dice ad un certo punto considerando la portata del trauma e delle sofferenze emotive arrecate) non riescono mai ad andare oltre a quello che potrebbe fare un articolo di giornale ben scritto

Morris, che ha dalla sua un bel po’ di esperienza, lo capisce e decide di alternare i dati e i fatti a livello macroscopico, alla storia singola di una famiglia girata con il linguaggio del cinema di finzione. Separated vuole in ogni modo riportare numeri astratti all’altezza delle persone. Legare quindi la riflessione razionale ad una più emotiva. Solo che lo fa nel peggiore dei modi: le sequenze in cui finisce il documentario e inizia il film scritto, sono approssimative e banali. Inquadrature e rallentatori enfatici per raccontare la separazione di un bambino da una mamma. Il documentario non si prende nemmeno la briga di spiegare se queste persone siano realmente esistite o siano la somma di altre storie.  

Solo nel finale Separated riesce a trovare un guizzo che lo faccia andare oltre la cronaca. Quando si chiede, “come è stato possibile che tutto questo sia accaduto?" Ci si rende conto che la forza del film poteva essere in questa domanda. Invece Morris usa tutti i suoi 90 minuti per spiegare cosa è successo. Si incarta presto ripetendo spesso lo stesso concetto, allungando il tutto come se dovesse riempire quella durata per contratto. Abbracciando così tanto la prospettiva del cinema d’informazione si è dimenticato di fare anche un cinema personale. Così Separated da documentario coraggioso, sulla carta, diventa un’opera invece molto timida che avrebbe potuto dire molto di più, ma che non ha avuto voglia (o l'ardire) di farlo.

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